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L'eredità di Grazia

Giorgio Giordani (1905-1940)
tutto schermo
Novembre 1981. Nella sala del Sagittario, gremita di un pubblico curioso di rivedere le opere di Giorgio Giordani (Sasso Marconi, 1905 – Bologna, 1940) risuonava, commossa, la voce di Luciano Minguzzi, tornato a Bologna per presentare l’ultima mostra postuma dell’amico e collega scultore, allievo di Giorgio Morandi, morto, trentacinquenne, quando era al massimo della celebrità. Non aveva perso il suo accento bolognese, l’artista celebre per i suoi galli, mentre illustrava le opere, alcune dal vero, altre in riproduzione fotografica, perché anche la guerra, dopo la morte prematura, si è accanita contro Giordani, distruggendone molta parte delle sculture. «Ricordo sempre con molto affetto Giorgio Giordani», esordì Minguzzi. «Mi è stato di aiuto negli anni dell’Accademia e nelle prime mostre che facemmo insieme. Giordani non merita un silenzio così ostinato sulla sua opera. Guardo sempre con ammirazione il fregio sul Palazzo del Gas, qui, nella sua-nostra città, e tutte le volte concludo che, già a quel tempo, Giorgio aveva fatto e dato tanto all’arte, con generosità e intelligenza».
Mia madre Hena, ironica come sempre, si era seduta di fianco alla Veletta, il suo ritratto, con cui mio padre nel 1935 si era distinto alla Biennale veneziana. «Vedi, Luciano», diceva, «sono io prima e dopo la cura». E l’ineffabile Minguzzi: «Ma la statua è rimasta trentenne». Aggraziate e fascinose, con una modella come la moglie, anche le altre teste di giovinetta o la Pescatrice, sensuale, che s’inarca a reggere un pesce fra le braccia. Il tempo non è passato, fermato dal bronzo. Così per la Quarta sponda, di michelangiolesca bellezza, altro grande bassorilievo distrutto in guerra: ne restano le foto. «Il Cristo in cera ha una carnalità mistica», è ancora Minguzzi a parlare, «che tocca il cuore, soprattutto se pensiamo che è un autoritratto; Giorgio guardò se stesso allo specchio per modellare quel volto da regalare come ex voto a San Luca, porgendolo al cardinale Nasalli Rocca, divenuto suo amico. E La Bagnante, dove ancora una volta hai posato tu, Hena, ora sarà fusa in bronzo dalla Smi Metallurgica di Firenze».
In effetti, la storia della Bagnante, ricordata da Minguzzi, è quasi un romanzo giallo. La cera si trovava a Roma, chiusa in una cassa dal 1940. Riposava, accuratamente imballata, al ministero dell’Industria e Commercio, dove tutti si erano dimenticati di quella lontana commessa a un artista morto prima di finire la sua opera. Finché nel 1980 passò un alto funzionario più curioso, fece aprire la cassa e rimase ammaliato dalla suggestione dell’opera. Pensava che fosse di Manzù. Si interessò perché finalmente fosse trasformata in bronzo: la Smi Metallurgica incaricò na fonderia di San Martino Buon Albergo, presso Verona, dove Minguzzi stesso presenziò perché l’operazione avesse buon esito.
Grazia Giordani
Trionfi in vita e poi silenzio della critica
Luciano Minguzzi ha scritto ancora nel suo autobiografico Uovo di gallo (Garzanti) un pezzo che commuove. «Mi era compagno l’effervescente Giorgio Giordani, acuto, logico su ogni cosa, scoppiettante come un fuoco d’artificio, spiritoso, inesauribile, seducente». Molte lettere sono intercorse tra Minguzzi, la vedova e la figlia di Giordani che ora qui ne scrive: sono anche nel mio romanzo Hena (Il Cerchio). Minguzzi insisteva: «Datti da fare, Grazia, non vendere niente. E se puoi, raccogli. Verrà il momento per il grande Giorgio, che io considero uno dei più grandi scultori del Novecento italiano». Sempre nel 1981, il critico Giorgio Ruggeri ha pubblicato per Il Sagittario la monografia Due vite parallele, ampiamente corredata di foto delle più importanti opere dell’artista prematuramente scomparso, e con una folta raccolta di recensioni, tra cui quelle di Ugo Ojetti. Corrado Corazza, Carlo Corsi, Italo Cinti, Carlo Savoia, Giuseppe Tassinari, Rezio Buscaroli, Alberto Spaini. I grandi critici degli anni Trenta-Quaranta si erano accorti di Giordani, giovane ma che già esponeva in sala personale alla Biennale veneziana e alle Quadriennali romane.
L’ultima recensione postuma sulla sua personalità umana e artistica, scritta con il cuore e l’intelligenza, è apparsa, in queste pagine, dalla bella penna di Donatello Bellomo, che ha avuto modo di ammirare l’opera di Giordani dal vero. Bellomo toccò il tasto della «damnatio memoriae»: Giordani visse negli anni del fascismo, realizzò sculture per edifici pubblici, evidentemente influenzate dall’estetica del regime. Ma cosa c’entra questo con il valore artistico della sua opera? Poi, più nulla. La critica tace, in altre cose affaccendata. Quindi, Giorgio Giordani morirà per sempre? Nessuno ricorderà più le sue vibranti sculture sparse per il mondo, nemmeno quelle bolognesi?G.G.
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Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 10 Marzo 2015

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