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Giacomo Leopardi "La distruzione dell'eterno" "Il tempo dell'attesa"

CONVERSAZIONI SUL TEMPO
Lezione seconda

Giacomo Leopardi:
la “distruzione dell’eterno”
il “tempo dell’attesa”

(Recanati 29 giugno 1798 –Napoli 14 giugno 1837)

Per conoscere Leopardi, entrando nel suo animo e nel suo vissuto non solo attraverso le nozioni libresche, quelle che abitano i manuali di letteratura, sarebbe bene, in una tepida giornata primaverile, prendere la strada per le Marche e fare una lunga sosta a Recanati, proprio nei mesi in cui gli alberi stanno mettendo le prime gemme e i tappeti erbosi sembrano essere di velluto.
Una guida gentile vi condurrà a visitare il palazzo avito del grande recanatese: vedrete i suoi libri, le sue stanze, gli oggetti che gli sono appartenuti, entrerete in punta di piedi nel suo mondo, partecipi di episodi della sua infanzia troppo folta di cultura e di libri, scarsa di affetti, sempre messa a prove di sapienza quasi disumane. Comunque la sua biografia è quella che potrete leggere qui sotto.
Primo dei cinque figli di Monaldo e di Adelaide Antici. Questa era più rigida amministratrice che affettuosa mamma; il padre, distratto dai suoi studi e dalle sue caparbie convinzioni politiche e morali, anche se orgoglioso dei figli e soprattutto di Giacomo, ma la prima fanciullezza del poeta fu lieta soprattutto per la presenza dei fratelli Carlo e Paolina, poco più giovani di lui.
Istruito da istitutori e dal padre, preso precocemente da «grandissimo, forse smoderato e insolente desiderio di gloria», G. fu in grado a 11 anni di tradurre il primo libro delle Odi di Orazio, a 14 di scrivere due tragedie; abbozzò saggi di storia ed economia, di filologia e di erudizione. Da solo apprese l’ebraico, attratto da una antico testo biblico, trovato tra quelli del padre.
Gli anni di «studio matto e disperatissimo» gli minò la gracile complessione. Sono anni però anche di grandi speranze. Pietro Giordani gli si era fatto amico (1817), ne aveva divinato il genio e lo andava di volta in volta incitando, sorreggendo, consolando.
Il 1919 è una anno di grave crisi. Impeditagli anche la lettura – a causa di gravi disturbi alla vista - non gli resta che la meditazione che lo porta, come vedremo, al fondo della disperazione intellettuale e sentimentale. Ci sarà un tentativo di fuga dal «borgo» e poi un deludente soggiorno di 5 mesi (1822-23) a Roma.
Nel 1825 può finalmente stabilirsi a Milano, stipendiato dall’editore Stella: sono gli anni del Bruto minore e dell’Ultimo canto di Saffo..
Tra il 1819 e il ’21 pubblica i piccoli Idilli: (L’infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno, Lo spavento notturno, La vita solitaria). Contengono alcune delle pagine più alte di tutta l’opera leopardiana, con un tono pacato di soliloquio o di colloquio con un essere simile al poeta nell’infelicità, un fondo dolore non accarezzato ed esibito, pronto a sciogliersi – sia pure per un momento – nella contemplazione di ampi orizzonti specie lunari, nell’ascoltazione trepida di silenzi solcati da canti solitari, nel sommergersi nel senso dell’infinito, nel dolce ripiegare verso il ricordo.
Nel 1835 pubblica i Canti a cui premette Il passero solitario.
La dialettica intima del L. consiste in una doppia insopprimibile tendenza: la necessità di appartarsi per effetto di disperato orgoglio o per bisogno di immergersi in un mondo incantato da lui stesso creato; e insieme il bisogno di consolare e di poter essere consolato, il poter non fare a meno di compagnia umana, la sola che possa rendere sopportabile la fatica di vivere.
Dal ’23 al ’28 tace come poeta, portando alle estreme conseguenze il suo pessimismo: l’infelicità umana non è frutto di contingenze particolari a questo o a quell’uomo e neppure nasce da contingenze storiche, dal prevalere della ragione sulla fantasia per effetto dell’avanzare della civiltà, del costituirsi degli uomini in società che tarpa le ali alla libertà individuale, ma è una legge di natura alla quale nessun uomo in nessun tempo potrà sottrarsi. È quello che gli studiosi chiamano il «pessimismo cosmico leopardiano». L’uomo non cerca altro che la propria felicità individuale, l’amor sui è l’unica molla della vita; e tuttavia la natura non si propone la felicità degli individui, ma tende soltanto alla propria conservazione, per la quale come sono necessarie le nascite, così sono necessarie le morti. La vita non è che un più o meno lento morire: assistiamo dentro a noi e intorno a noi al progressivo, inesorabile sfiorire di ogni cosa, finché non interviene lo stacco supremo, dopo il quale si ha soltanto nell’annullamento totale il definitivo riposo. (negazione dell’eternità)
Dopo l’inutilità della vita, il taedium vitae, la grande malattia spirituale dei romantici di cui L. è in Italia il cantore più alto. Tutto questo troviamo nelle Operette morali (dualismo tra necessità del suicidio e desiderio di vita consolati dagli affetti).
Dal ’28 al ’30 riprenderà a scrivere in poesia con i grandi Idilli (A Silvia, Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia): dal pessimismo cosmico alla pietà cosmica. Col pianto, con la pietà per gli altri e per se stessi, non sono compatibili né lo sdegno e il disprezzo per i codardi, né l’esaltazione del proprio coraggio. Dal titanismo di Bruto, il poeta passa ad un titanismo più sottile (Pastore errante). Da un Leopardi eroico, alfieriano, passiamo ad un poeta di più raccolto dolore.
La pietà di L. è attiva, vuol consolare. Pietà e consolazione non possono volgersi che agli umili e soprattutto ai giovani per le loro ingenue speranze nel domani.
Quello leopardiano è quindi un tempo della speranza, e quindi dell’attesa, ma non visto nel suo valore positivo – forza della vita -, ma considerato con il tenero disincanto di chi ne conosce la vanità.
Lo sbocciare e il fruttificare della speranza in Silvia, in Nerina e in se stesso giovane, la morte e la vita stessa che la tradiscono è il tema di A Silvia e delle Ricordanze; l’aspettativa di una gioia che non verrà nelle appena accennate figure del Sabato.
Ma in L. vi è anche un risorgere dell’alacre gioia, dell’amore della vita, dopo la tempesta, in quelle umili figure che affollano nitide la Quiete.
Dopo il 1830, l’ultima illusione attende il poeta: l’estremo inganno, l’amore per Fanny, da vicino e da lontano che deve essere collocato negli anni 1833-1835. Nascono cinque altre poesie del ciclo «di Aspasia». Prevalgono in queste poesie i toni eroici della speranza titanica, le invettive e i sarcasmi della titanica disperazione (soprattutto nei secchi, terribili versi di A se stesso, epigrafe mortuaria).
Negli anni napoletani la Ginestra ci offre quasi un riassunto poetico di tutta la sua meditazione, ora troppo raziocinante, ora innalzata da empiti lirici di grande ampiezza e profondità e soprattutto Il tramonto della luna nel quale canto vi sono gruppi di versi degni della dolorosa pacatezza e castità dei grandi Idilli .
Grazia Giordani
Abbiamo visto che il 1817 è l’anno di inizio della meditazione leopardiana su scala filosofica che prende corpo nello Zibaldone (1817-26) e nelle Operette morali (1827). Composte in una lingua sceltissima per lessico e costruzione, e dotate di una rigorosa organizzazione interna, le venti Operette rispondono al progetto più volte preannunciato da Leopardi all’amico Pietro Giordani, di dotare l’Italia di una prosa filosofica. L. insiste nella necessità di rifiutare qualsiasi illusione, sia la speranza religiosa che il progresso scientifico che aveva affascinato i contemporanei qualificati nuovi credenti. Nella Ginestra approda però a un nuovo messaggio di solidarietà che si appoggia non sulla speranza della salvezza, ma sulla certezza della irredimibilità della sorte umana.

«La distruzione dell’eterno»: solo il nulla è eterno. Nessun essente è eterno – afferma il più importante filosofo vivente – Emanuele Severino – interpretando il pensiero leopardiano a proposito di tempo ed eternità.
«Nei Pensieri leopardiani il tempo è conosciuto come il tempo in cui un uomo vive. E questo tempo è un aspetto del tempo in cui esistono tutte le cose. Vien dunque alla luce, in questa pagina dei Pensieri, che il mutamento del tempo – il divenire – è il fondamento in base a cui si esclude che il contenuto concreto della bellezza sia qualcosa di immutabile.
Poiché il divenire esiste, l’immutabile l’eterno non esiste.
L’evidenza del divenire è l’evidenza dell’annientamento di ogni cosa: «la vita è evidentemente nulla» Anche le idee eterne (platonismo) non esistono e sono solamente un «sogno».
Il poeta, trentanovenne, ha chiuso i suoi giorni a Napoli, ospite di fedelissimi amici
GRAZIA GIORDANI

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 21 Febbraio 2009

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