I racconti di Grazia


Sestetto

La Balilla

All’inizio degli anni Cinquanta, si pativano ancora molte restrizioni postbelliche, ma papà (ed è chiaro che mi riferisco a mio patrigno, essendo mio padre, l’Artista, morto quando avevo appena compiuto un anno d’età) era riuscito – dopo tanti anni di motocicletta – ad acquistare una balilla di seconda mano.
Nera, brillante come se fosse tirata a cera, corredata di rigorose tendine, suscitò l’invidia di amici e parenti. La vedo ancora sobbalzare nei viottoli di campagna, carica di medicinali e dei ferri chirurgici per il pronto intervento del mio amorevole babbo, medico degli animali.
A proposito del suo secondo matrimonio, l’ironica, affascinante Hena usava dire: «dalle stelle alle stalle.» In effetti, il passaggio dall’intellighenzia degli artisti bolognesi – frequentando il cenacolo del mitico Caffè San Pietro, a fianco di Guidi, Saetti, Bacchelli, Minguzzi & Compagnia – alla vita piatta e agreste polesana, deve esser stato un colpo non da poco, per la vedova rimaritata.
Insomma, ritorniamo alla balilla.
Notoriamente, papà – pur amandomi molto - era un distratto, quindi mamma mi affidava malvolentieri alle sue cure, soprattutto da quando mi aveva dimenticata in un caffè veronese, consolata da un solerte cameriere che aveva telefonato a casa per il mio recupero. Quindi, Hena cedette controvoglia alle insistenze paterne di portarmi con sé in campagna a far le visite agli animali, inaugurando così l’automobile.
Era una mattinata piovosa. Papà guidava piano, canterellando stonato. Tenevo stretta in seno la mia bambola prediletta, la mia confidente. Mamma rimase a casa perché era impegnata in cucina: aspettavamo gente a pranzo. L’auto fu parcheggiata vicino a un grande fossato. Non volevo scendere, preferendo i dialoghi confidenziali con la mia bambola, all’approccio con gli animali: oche soffianti, scrofe grugnenti, mucche e cavalli rumorosamente defecanti; oltre alla pressione dei contadini che insistevano per farmi bere un gotesato de vin.
Fortunatamente, non l’ebbi vinta e fui costretta a scendere.
Finite le visite – questa volta si trattò della nascita di un delizioso vitellino – fummo colti dall’amara sorpresa della sparizione dell’auto. Della balilla si vedeva a malapena il tetto affiorare dall’acqua limacciosa del fossato. Evidentemente, papà non l’aveva lasciata in marcia, o non so quale altra distrazione avesse commesso. Ci vollero quattro buoi per recuperarla, grondante d’acqua, ma ancora rombante e dispostissima a riportarci a casa.


Zita Zitoška

Capelli corvini stretti dentro una treccia che le imprigionava la testa, abiti lunghi alla caviglia, viso perennemente corrucciato, pronuncia dura: questa era Zita Zitoška, la profuga croata che – per qualche mese – collaborò alle faccende di casa, quando ero bambina. Mia madre – pur non avendo simpatia per lei - non aveva il coraggio di licenziarla, viste le sue precarie condizioni di donna sola, senza patria e senza parenti, ma era infastidita dai suoi modi “slavi” e dalla sua mania per le pulizie.
Anche a me sembrava strana quando dava di piglio a ranno e spazzola, gettandosi ginocchioni sotto la tavola durante il pranzo.
(mia madre) «Zita, ma lei non mangia? Suvvia, laverà il pavimento dopo, più tardi…»
«Non posso mangiare se il pavimento non è perfetto.»
(mio padre) «Hena, lasciala fare, che male c’è se ama tanto la pulizia?»
Mi piacevano le palacinke, frittatine dolci che preparava solo per me, ripiene di marmellata, e che mi consegnava furtivamente, come se fosse un segreto fra noi.
Quando mi alzavo, il mattino, invece di salutarmi, come avevano sempre fatto le ragazze o donne che l’avevano preceduta con gli stessi incarichi domestici, mi si avvicinava, piena di mistero e mi sussurrava: «Hai fatto le cacche?»
Se l’attesa evacuazione non era avvenuta, provavo un vago senso di colpa, come se mancassi ad un dovere, continuando a provare meraviglia per quel plurale.
«Perché le cacche? - chiedevo a mia madre.»
«Loro sono slavi e le faranno doppie…»
Una mattina, all’alba, è scomparsa.
Nessuno di noi l’ha vista preparar valigie,
Semplicemente, se n’è andata.
Sul tavolo di cucina c’era, per me, l’ultimo vassoietto di palacinke.


Ma mi…

«Ma mi no so parché el gapia da verghe sempre chel muso ingrugà, chela facia triste – ma io non so perché debba avere sempre quel muso rabbuiato, quella faccia triste…» Questo era, spesso, l’esordio dei discorsi dell’Assunta, una simpatica donna che – da anni – ci aiutava nelle faccende di casa, quando ero ancora bambina.
L’immusonito di cui si lamentava era il marito, detto, sempre stando ai discorsi della consorte, el rodolfovalentinodelecasete (il Rodolfo Valentino delle “Casette”). E le Casette erano, appunto, un agglomerato di case popolari molto scalcinate, dove viveva questa povera famiglia.
L’ingrugnato, oltre a “rodolfovalentinare” e a lamentarsi, ora vedremo di cosa, faceva, occasionalmente, il falegname o il muratore, penso maluccio, tanto per tirare avanti.
«Perché suo marito è sempre così scontento? – chiedeva mia madre.
«El xe n’incontentabile – E’ un incontentabile» - rispondeva l’Assunta, asciugandosi le mani nel grembiule, mentre risciacquava i piatti.
«A xe a causa de le do fiole più grandi – E’ a causa delle due figlie maggiori. Le laora col suo. No le porta via gnente a nissuni, anzi i la dà; le laora al querto e le xe sempre controlà da le visite mediche. – Lavorano con i loro mezzi. Non portano via niente a nessuno, anzi la danno; lavorano al coperto e sono sempre controllate dalle visite mediche.»
Ancora la legge Merlin non aveva posto rimedio a queste situazioni.
In casa nostra si erano create due scuole di pensiero: mia madre parteggiava per l’immalinconito consorte, preoccupato per il destino delle due figlie, avviate alla più antica professione del mondo, mentre mio padre ammirava il serafico carattere dell’Assunta che, in ogni circostanza della vita, sapeva vedere qualcosa di buono.


La gaffe

Già conoscete l’attitudine di papà – del mio secondo padre, intendo, essendo rimasta orfana dell’artista quando avevo un solo anno d’età – alla distrazione, alla svagatezza. E chi è distratto, è giocoforza che sia anche gaffeur, sissignori, perché l’essere altrove col pensiero, fa sì che si dicano cose improprie.
Raccontava lui stesso, con dolore, che all’epoca del Ventennio, invitato a cena da un’aristocratica fiorentina che gli piaceva tanto, elegante e raffinata tipo Grace Kelly, nel bel mezzo dei convenevoli, gli saltò in mente, tanto per dire qualcosa, di lodare Mussolini – eravamo nel 1938 - credendo di rendersi gradito a chi lo ospitava. Non si era ancora al dessert, e l’aristocratica madre dell’aristocratica figlia, rivolgendosi al maggiordomo, improvvisamente disse:
«Battista, sono certa che il dottore, desidera andarsene e vuol essere accompagnato alla porta…»
E lui che non capiva questa improvvisa freddezza e la nuova piega della serata:
«Ma no, signora, non ho fretta…» E lei che insisteva: «Sono certa che si vuole accomiatare…»
Uscì da quella casa, molto perplesso, e ci assicurò che, leggendo il cognome LEVI sulla targhetta del campanello, avrebbe voluto sprofondare
Suppongo lo sapesse già, ma lo aveva dimenticato.
Questa è stata la gaffe più amara.
Quella più buffa gli è capitata dove viviamo.
Ero con lui in un caffè del centro.
Entrò un signore che gli parve nuovo, quello che i veneti direbbero foresto.
Gli si avvicinò e cominciò ad intervistarlo: «Da dove viene, cosa fa, ecc.»
Le risposte erano gentili.
Saputo il paese di provenienza, il papà esclamò: «Lo conosco bene, ci vado sempre, perché mi piace prendere il caffè nel bar centrale, servito da quella donna con la lunga barba, detta Garibaldi.»
«Sì, lo so bene è mia moglie.» - rispose il rassegnato marito di quella stranissima signora fornita di un generoso onor del mento.
Per un attimo, respirai gelo, ma il papà se la cavò rispondendo, senza imbarazzo:
«Comunque, bella donna, anche se un po’ pelosa…»


La libreria

«Non comperate altri libri, anche perché non ne posso più di acquistare nuovi mobili per riporli!» - suona alta la voce di mio marito, rivolta a me e a nostro figlio.
E non sapremmo come dargli torto.
Ma non possiamo resistere.
Madre e figlio siamo drogati della carta stampata.
La pagina scritta è il nostro hascisc e la nostra cocaina; ne assumiamo dosi massive e non siamo mai sazi. Del resto, ognuno ha i suoi vizi. Ci vuole indulgenza, suvvia!
Il figlio legge, per lavoro, testi giuridici, ma quando è a casa, negli intervalli in cui non suona il pianoforte (sua altra divorante passione!) legge soprattutto di politica, storia e filosofia. Si rilassa così. Quanto a me, sono onnivora, anche se l’età, ormai più invernale che primaverile, mi orienta sempre più verso la saggistica.
Non contenta dei libri da recensire (che mi passa la redazione veronese) e di quelli che mi inviano alcune case editrici, per lo stesso scopo, non so trattenermi dagli acquisti, quando vedo reclamizzato qualche testo che mi piacerebbe. E, nel mio disordine, il guaio è che riacquisto talvolta gli stessi libri, perché non li trovo più, sepolti in quel mare cartaceo.
Insomma, per farla breve, ieri abbiamo acquistato altre due librerie, cercando di non fare troppo caso alla rassegnata disapprovazione del padre e consorte.
Adesso, mentre scrivo, uno dei sunnominati mobili ammicca dal fondo della parete; mi lancia, dai suoi ripiani ancora vuoti, occhiate maliziose che direi essere quasi sorrisini.
Sembra dirmi: «Lo so che non ti basta, ma non hai più muro libero, la bulimia va tenuta a bada…»
E proprio adesso, mentre avrei avuto intenzione di rispondere per le rime a questa sfacciata libreria, uno splash-pataplash mi ha tolto la parola di bocca: da quella più vecchia, la decana della collezione, quella dirimpettaia, destinata ai classici, sono zompate fuori le donne perdute della letteratura mondiale. Ho la vaga impressione che Emma (Bovary) e Anna (Karenina) non siano mai andate troppo d’accordo.
Mi sbrigo a raccoglierle e a riporle in qualche modo, magari una al piano alto e l’altra a quello basso del nuovo mobile, perché sento già aria di zuffa.
«Tu hai tradito per noia, mentre io sono caduta per Amore!» - sibila Anna nei confronti di .Emma.
E ora litigheranno anche per la collocazione nei ripiani.
Di queste prime donne, non se ne può più!!!


L’orologio

Vi è mai capitato di sbagliare cresima?
Ma, andiamo per gradi, anche perché – se avete già letto il titolo – voi potreste chiedermi: «Cosa c’entra la cresima con l’orologio?»
Mio padre, re dei distratti, aveva ricevuto l’invito a una cerimonia di cresima.
«Cosa regaliamo, Hena, al cresimando?»
«A tutti i ragazzini piacciono gli orologi.»
«Bene, allora provvedi ad acquistarne uno e che sia bello.»
Accompagnai mia madre.
Ero una bimbetta, ma ricordo ancora il suo pignolo contrattare sul prezzo, la scelta attenta, l’astuccio di raso azzurro in cui fu amorevolmente adagiato il bel padrone del tempo, oltretutto, di marca.
La domenica, vestiti a festa, ci recammo alla cerimonia.
Sentimmo subito che c’era qualcosa che non andava per il verso giusto.
Al papà sembrò di non riconoscere, fra i presenti, coloro che lo avevano invitato.
Al posto del ragazzino, c’era un’esile bimbetta, soffocata fra pizzi e veli.
Insomma, avevamo sbagliato cresima…
E, nella vita, si possono fare errori anche più grossi, questo si sa.

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 18 Aprile 2006

Torna all'indice dei Racconti