I racconti di Grazia


La mano del morto

La mano del morto
Già appariva sinistro quel raggio di luce contorto, uscito dal rammendo di una vecchia tendina, appesa alla finestra laterale. Sembrava una biscia fuori posto, intenta a interrompere l’umida penombra della stanza, con la sua corsa obliqua, trafitta da un pulviscolo elusivo. Una tovaglia grezza, ancora odorosa di bucato, velava lo specchio sul fondo, sovrastante la rustica credenza. Allora ero un bambino e non sapevo che – riflessa in uno specchio – avrebbe perso la capacità di viaggiare l’anima di un morto. La superficie lucida l’avrebbe imprigionata per sempre, togliendole il potere, anzi il diritto, di volare alto. Anche per questo, mia nonna, teneva alla cintura una bella chiave vecchia, con l’asta e l’occhiello lavorati. Come sarebbe stato possibile aprire la porta del paradiso senza quel prezioso attrezzo?
Era il mio primo incontro col mistero della morte quello che mi attendeva in quella stanza, quasi sempre chiusa (la camera dell’ottomana, un rigido sofà di velluto scuro, scomodissimo, ma prezioso perché era appartenuto alla nonna della nonna), dove si conservavano gelosamente i bicchieri non spaiati e un servizio di tazze da caffè, avvolto nella velina, da usare solo il giorno di Natale, per le feste grandi, battesimi, fidanzamenti e funerai.
Sì, avevo visto tirare il collo alle galline, avevo udito l’urlo straziante del maiale sgozzato dal norcino, avevo pianto per la morte del mio cane, un affettuoso meticcio, mio compagno di giochi, ma quella era la fine di animali, l’essere umano era un’altra cosa, o almeno così credevo, nella mia ingenuità di bambino.
Adagiato nella bara aperta, al centro della stanza, c’era il corpo del nonno, morto mentre sonnecchiava seduto all’ombra del noce, come usava fare tutti i pomeriggi, prima di riprendere il lavoro. Chiamava un “passacuore” questo suo breve, meritatissimo lusso. E il cuore l’aveva preso di parola, passando verso l’Altrove, una volta per tutte. Quel corpo senza vita, aveva, ai miei occhi, un’ estraneità sorprendente. Sembrava una statua di cera, una falso del padre di mio padre, di cui ricordavo la mobilità del volto simpatico e sorridente.
Le donne, sul fondo della stanza, mormoravano preghiere.
Gli uomini stavano impalati col cappello in mano. Strano, visto che di norma, non lo toglievano mai, nemmeno seduti a tavola. I pensieri correvano rapidi dentro la mia mente persa dentro tante novità, quando il silenzio fu rotto dal pianto disperato di una bambina, trascinata a forza dalla madre, che irruppe nella stanza.
Cocciuta, la donna, segaligna, animata da una bieca “buonavolontà”, sollevava quasi da terra una bimba esile, circa mia coetanea, recalcitrante e terrorizzata dall’avventura in agguato per lei. Sfilateli gli occhiali dalla spesse lenti, quella mamma intenta al bene futuro della figlia, ha accostato la mano sollevata a forza del nonno, agli occhi malati della piccola.
Mi è parso di vedere un indimenticabile artiglio tragico, attraversato dal raggio di luce polverosa, che la finestra non smetteva di proiettare. Unna scena da film dell’orrore. Tutti i presenti erano persuasi che la vista della bambina sarebbe migliorata, dopo l’ ”applicazione terapeutica” della mano del morto.
Anni dopo, ho incontrato la ragazza per caso.
Camminava a testa bassa, recando un pesante cesto di mele appeso al braccio. Non mi fu dato di vederla in volto. Non seppi mai se il nonno fosse riuscito ad operare il miracolo. (g.g.)

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 19 Ottobre 2007

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