I racconti di Grazia


L'Altra

Si chinò a raccogliere la valigia che aveva lasciato al limitare del giardino, appoggiandola a ridosso di un tronco d'albero. La conoscevo bene quella valigia, piena non soltanto dei suoi abiti informali e svelti come lei: dentro portava anche la voce roca della delusione e il canto dei nostri momenti felici; pochi, in verità, a causa soprattutto del mio brutto carattere di artistaccio, bastiancontrario, uomo sopra le righe, fuor delle regole, e spesso abitato da una cupa malinconia, sempre consapevole della caducità di uomini e cose, come se Thánatos non volesse dormire mai, sempre sveglia al mio fianco, nera come i miei foschi pensieri.
Avevamo convissuto sette anni a Berlino. Marina non era una vamp, ma a me era molto piaciuta e forse mi piaceva ancora. Avevo amato la sua intelligenza tagliente come la lama di un rasoio, il suo parlarmi di filosofia - ricercatrice nietzscheana nel principale ateneo tedesco -, senza la prosopopea degli intellettuali, sdrammatizzando anche gli argomenti più complessi, non per banalizzarli, adottando un metro semplicistico, ma perché li aveva capiti così profondamente, da renderli comprensibili anche ai non addetti ai lavori.
Mi piaceva la sua figura asciutta, un po'androgina, stilizzazione di una donna-ragazzo. Da lei avrei voluto più affetto, però, una maggior tenerezza, capacità di ascoltarmi, di ascoltare persino i miei silenzi.
"Vorresti una donna geisha?"
No, non era questo che volevo, ma una donna attenta che mi valutasse, che sentissi partecipe, che entrasse persino dentro le mie malinconie, che imparasse a diventare un elfo dei boschi della collina senese, così come era una perfetta esperta di discipline difficili all'università. Avremmo potuto camminare a lungo tenendoci per mano, comunicando anche solo col calore delle dita: quante cose sanno dire le dita, complici e allusive, quando si annodano cercandosi, vellicando dorso e palmo della mano che stringono ed imprigionano, liberandola, con la forza trasgressiva del loro criptato linguaggio!
Era tornata per qualche giorno, per visitare la mia nuova casa.
Non avvertivo imbarazzo, eppure non ero nemmeno del tutto a mio agio: ci eravamo lasciati male, pur non odiandoci, pur non dimenticando gli innegabili momenti piacevoli, di comunione completa trascorsi insieme.
Sollevando il suo bagaglio, urtai con il gomito la scarsa prominenza del suo seno, e un brivido di appagamenti ricordati, mi tornò addosso: un seno è coma la madeleine di proustiana memoria, pensai; dunque basta uno sfioramento fortuito a riaccendere fuochi che credevamo spenti, è sufficiente la frizione contro un tessuto a riportarci momenti d'amore?
Sì, evidentemente è così.
Marina sorrise, già presa dal suo bisogno pragmatico di fare cose pratiche, nell'ordine di: accendere il frigorifero, il boiler, assicurarsi che vi siano provviste di acqua e generi di prima necessità, telefonare alla madre sbrigativamente; tutto come un tempo, tutto come allora, eccettuato il nostro entusiasmo che - nel tempo - si era allentato, anche se non serbavamo rancore.
"Chi fa la doccia per primo?"
Un tempo ci saremmo gettati sotto lo scroscio dell'acqua calda insieme, felici di insaponarci l'un l'altra, persi nei nostri giochi d'amore.
"Ti cedo la precedenza" - risposi asciutto, troppo orgoglioso per esprimerle una avance legata al nostro passato.
La sentii canticchiare sotto la doccia. Uscì rapida, asciugandosi i capelli con una salvietta di spugna, con gesti secchi, poco armoniosi in un'altra donna, in lei non privi di una certa eleganza.
Dopo il mio turno, ci sedemmo con due vassoi sulle ginocchia in poltrone adeguate alla sua statura di donna alta, ma non fuori dalla norma, scomode per i miei due metri d'altezza, troppo spesso inadeguati a un mobilio che - per soddisfarmi - dovrebbe essere su misura; forse è anche per questo che, d'inverno, studio, leggo, vivo, mi annoio, sempre sdraiato nel letto, l'unico pezzo d'arredamento che sappia contenermi tutto intero, senza obbligarmi a scomodi contorcimenti.
Cenammo quasi in silenzio, un occhio alla TV e un orecchio a strani rumori esterni: cani di passaggio? Frenate d'auto che si erano avventurate fin lassù? Abito in un luogo isolato, normalmente sepolto dentro una quiete naturale, rotta solo dalla voce del vento.
Ci avviammo per coricarci in stanze separate.
A metà corridoio, senza dire nulla, ci dirigemmo verso la mia camera.
Marina amava spogliarsi da sola, con gesti precisi: ripiegava ordinatamente gli indumenti, man mano che se li sfilava di dosso. Forse mi sarebbe piaciuto, almeno una volta, vederla gettarli a terra, presa da una frenesia - che non le sarebbe somigliata -, ma che mi avrebbe oltremodo inorgoglito.
Ripose pacatamente sulla seggiola la vestaglia del dopo-doccia e la poca biancheria sottostante . Si volse verso di me, col volto piacevolmente arrossato, qualche ricciolo ancora umido le scendeva sulla fronte, inducendo la mia mano a sollevarglielo con gesto dolce, quasi esitante.
La presi subito, con pochi preamboli, timoroso di lasciarmi sopraffare dall'ansia e dalla fretta, causata dalla lunga astinenza.
La sua biancheria, ordinatamente afflosciata sulla seggiola, mi parve scialba, consueta come una situazione troppe volte vissuta nella sua routinarietà.
Per contrasto rividi la combinazione di seta azzurrina dell'Altra, morbida come una carne viva, profumata di lei di quel suo profumo, troppe volte immaginato, di pepe e miele; riudii l'ansito breve del suo sospiro, accarezzai nella mente la curva piena dei suoi seni, e prepotentemente si sovrappose tra me e Marina, quella donna elusiva e tanto amata nella sua inquietante "presenza-assenza"…
Il ricordo del suo alito mi vibrava sul collo, il sapore della sua bocca mi impediva di baciare con slancio la donna reale che avevo davanti a me.
Cercai di concludere l'atto d'amore senza quello slancio che la mia partner si sarebbe aspettata, stordito, meravigliato, ancora più solo che in compagnia, desideroso anzi di ritrovare del tutto la mia solitudine, per assaporarla fino in fondo.
La mia ex compagna restò con me altri tre giorni.
Parlavamo distrattamente, sovrapponendo le nostre voci, tacevamo del tutto, stratificando i nostri silenzi.
Mi spiaceva che se ne tornasse a Berlino così, senza un vero tentativo da parte mia o sua di ricucire gli strappi di una lunga porzione di vita insieme trascorsa.
Ero distratto, ero preso da ricordi di una virtualità soltanto desiderata, ma più vera che se l'avessi realmente vissuta.
La bocca, la bocca dell'Altra era diventata la mia persecuzione, e certe esitazioni, pause struggenti nella sua voce, soltanto una volta udita al telefono…
L'auto era pronta davanti alla porta di casa; aiutai Marina a caricare il bagaglio, nascondendo la mia ansia di vederla ripartire. La condussi alla stazione, aspettai fremente, di vedere il convoglio mettersi in marcia; un rapido saluto dal finestrino; una ancor più rapida corsa verso la mia casa di cui già vedevo i rampicanti rosso-dorati occhieggiare sulla parete.
Presto, presto, presto. Accendere il computer, collegarmi Internet, entrare in "posta in arrivo"; attendere lo squillo del messaggio. Sì, sì, sì il messaggio c'era: "Tesoro mio, perché tanto silenzio?". E già il mio cuore stava rispondendole, prima ancora delle mie mani sulla tastiera…

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 18 Aprile 2006

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