I racconti di Grazia


L'uomo della gru

L’uomo della gru
Lo vide all’improvviso annidato dentro al mostro d’acciaio. La gru protendeva il lungo braccio verso il suo terrazzo, come una minaccia sospesa, qualcosa d’irrisolto, al di fuori del reale. Da alcuni anni Ester non si occupava più degli uomini e, a dire il vero, non se ne era mai occupata troppo. Si sentiva pienamente in garage, paga delle faccende di casa, delle ricette di cucina, del lavoro a maglia, di qualche romanzo d’evasione, letto per riempire i suoi vuoti di umanità. Era precocemente invecchiata, un po’ segaligna, convinta che l’altro sesso le fosse nemico e che quindi evitarlo restava sempre il partito migliore.
L’uomo della gru le fece impressione. Risvegliò in lei qualcosa di assopito e che riteneva del tutto morto. Le sembrò maggiormente ricco di fascino più il gioco della sua immaginazione di quanto riuscì veramente a vedere. Le parve un personaggio alla Robert Redford. Prese il suo piccolo binocolo da teatro per mettere meglio a fuoco il ciuffo di capelli lisci biondi (o rossicci? I particolari non erano amici della sua miopia). Lo sguardo azzurro chiaro le parve irresistibile. Le sembrò di notare piccole efelidi sul naso, due pieghe profonde ai lati della bocca. Corse in casa a ravviarsi. Pensò: «Se facessi in tempo, mi laverei i capelli».. Si passò il piumino da cipria sul naso, stese un rimasuglio di rossetto, di cui non ricordava nemmeno più l’esistenza, sulle labbra. Indossò un vestito color pastello che non metteva da anni. Sentì quasi rifluire dentro un’ondata di vita. Rise alla sua immagine allo specchio. Uscita di casa, passò sotto alla gru.. Non vedeva quasi niente da quel punto.«Molto meglio il terrazzo». Pensò. Risalì in casa e, con la scusa di accudire ai fiori, si mise a guardare con insistenza verso il suo «Robert» formato polesano.
Cominciò ad almanaccare, a crearsi dei romanzi, ad ipotizzare inviti a cena, al cinematografo, in una piccola balera di provincia. Guardava nelle vetrine maglioni e camicie che avrebbe voluto regalare al «suo» gruista. Gustava bottiglie da stappare assieme, pensava a chicchi d’uva da rubare dalle sue labbra e rideva con piccole risate brevi, tipiche della donna che si sente nuovamente giovane, ancora desiderabile, innamorata. Robert – nelle fantasie di Ester – si faceva sempre più insistente, sempre più ardente e a lei riusciva ogni giorno meno facile respingere i sui fantasticati assalti.
Una mattina, il sosia di Redford suonò veramente alla sua porta. Faceva caldo, molto caldo. Le chiese da bere. «Che abbia notato le mie moine dal terrazzo?» - si domandò Ester intimidita e speranzosa insieme.
Visto da vicino, il gruista era meno interessante. I capelli bagnati di sudore si appiccicavano alla fronte, la mano posata sul bicchiere, mostrava unghie nemiche della manicure, la voce era secca, il vocabolario avaro; la camicia emanava un odore forte. Non si diede per vinta e scambiò per ruvida virilità, quella che lei conosceva solo nei sogni, la reale mancanza di finezza. Riprese a costruirsi romanzi legati all’uomo della gru. Arrivò a pensare ad un fidanzamento, all’invidia delle amiche nei confronti di una zitella, creduta appassita, capace di affascinare un giovanotto. Si sentì seduttrice, pericolosa, irresistibile… I giorni passavano. Fra poco la gru sarebbe stata rimossa e i suoi sogni finiti, riposti nel cassetto dello zitellaggio.
Una mattina, lo vide scendere dal suo abitacolo e avviarsi, la mano posata sulla spalla di un uomo scuro di pelle e di capelli, un tipo che la colf delle «Sorelle Materassi» avrebbe definito «un bel moro per Die», vorace e volgarotto. C’era una confidenza – tra quei due uomini – che le fece male, un feeling amoroso che non poteva sfuggirle. Si ritenne tradita; i suoi castelli in aria venivano completamente distrutti, non aveva più senso incipriarsi il naso, indossare la sottoveste di seta, profumarsi l’incavo dei seni, indossare calze che velavano le gambe di longilinea, ancora belle.
L’ondata di vita non le scorreva più, calda, nelle vene. Si sentì intristita, appassita come una foglia senza linfa. Indossò nuovamente l’abito da casa, si tolse il pettinino coi lustrini dai capelli e il bracciale d’avorio antico, ereditato dalla madre. Le parve che persino il micio tigrato la guardasse con ironia, le miagolasse dietro derisorio. Pensò:«Terrò chiuso il terrazzo fino a lavori finiti, oppure partirò per la montagna; mi rassegnerò. Adesso sono irrimediabilmente una donna senza amore. Robert mi ha dato e rubato l’ultima illusione, mi ha fatto sperare di essere notata, corteggiata. A cosa serve un’esistenza grigia, senza affetti? Chi non si sente amato e non ha nessuno da amare, campa senza vivere, non è più una persona, è qualcosa senza storia».
Le lacrime le scesero lungo le gote, lente, a cancellare le ultime tracce di belletto e di cipria.
Grazia Giordani

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 23 Marzo 2009

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