I racconti di Grazia


Clotilde

Clotilde

Portava quel nome come una croce. Nemmeno i tentativi di vezzeggiativo, da parte di amici comprensivi che speravano di lusingarla con dei gorgheggiati clo clo la pacificavano con l’anagrafe imbarazzante, sembrandole questo troncamento di sillabe questo fedifrago Clo, così pronto ad abbandonare la povera Tilde, addirittura il rumore dello scroscio d’acqua giù per il lavandino, o peggio ancora il tentativo fallito di un gargarismo.
«È un nome tradizionale di Casa Savoia – le dicevano alcuni; lo ha portato una grande santa -, sostenevano altri». Ma Clotilde aveva il complesso della sfigata, di quella a cui tutto è andato male, a partire dal nome. Nomen omen – si ripeteva -, ed era certa di non sbagliarsi.
Le sarebbe inoltre piaciuto esser destinata a un matrimonio importante, con un uomo che conta, di quelli forniti di danaro e blasone. Nella sua città non mancavano di sicuro i così detti buoni partiti, ma non guardavano certo lei di estrazione piccolo borghese, sebbene fosse piuttosto carina, di media statura, personale snello, lineamenti regolari, sguardo azzurro-verde, forse un po’ opaco, poco espressivo, risollevato però da una dentatura smagliante.
Il fatto è che si può essere graziosi, ma non affascinanti. Lo charme non ha canoni estetici. Legato a categorie che travalicano la pura forma esteriore, il fascino è imperscrutabile e a Clotilde ne era toccata una misura talmente esigua da complessarla, facendola sentire spesso inadeguata.
E questa sensazione non l’aiutava certo a vivere bene, esasperando il suo bisogno maniacale di perfezione esteriore. Bastava una screpolatura allo smalto delle sue laccatissime unghie o un ricciolo fuori posto (per non parlare di una smagliatura nelle calze!) per metterla in crisi. Non sarebbe stato meglio che si fosse dedicata a qualche buona lettura, a libri che arredano il cervello, invece di divorare giornaletti fatui, nutriti di gossip? Le mostre d’arte – quelle sì – l’interessavano abbastanza. E meno male!
Visto che un moroso decente non si faceva avanti, sforzandosi di uscire dalla sua timidezza, corteggiò di sua iniziativa l’unico ragazzo che le prestava un po’ di attenzione: il suo compagno di banco.
Dopo il diploma, le nozze. Una vita perfettamente in simbiosi.
Lo scomodo Clo con cui iniziava il suo nome di battesimo era stato sostituito dallo sposo con un più gradito Tilde. La nascita di un figlio con qualche problema l’aveva lasciata abbastanza indifferente, delegandone la cura ai suoi onnipresenti genitori che l’avevano continuata a viziare, impedendole un’auspicabile maturazione.
Un bel giorno, anzi un brutto giorno, il padre rincasò cupo, dicendo che il medico gli aveva diagnosticato un cancro inguaribile.
(No comment riguardo l’umanità e la diplomazia di un simile terapeuta).
« Ma dai, papà, avrà esagerato!»
«No, questa è stata proprio la sua inesorabile sentenza».
Toccò proprio a lei, all’immatura giovane sposa, la sorte di aprire la portiera dell’auto – dopo due giorni di inutili ricerche – dove il padre giaceva suicida. La disperazione gli aveva impedito di accettare la dolorosa realtà, cercando di lottare, di farsene una ragione.
La madre, colta di sorpresa da una notizia tanto agghiacciante, inoltre umiliata dal non aver trovato nemmeno un biglietto d’addio, una frase che suggellasse la consuetudine di un lungo matrimonio, cadde in una depressione talmente devastante che fu indispensabile assumere una ragazza dell’Est (visto che infermiere nostrane è ormai difficile trovarne!) che l’accudisse e si prendesse in toto cura di lei.
L’unione di Clotilde sembrava procedere serenamente.
Il marito aveva fatto carriera.
Il figlio si era diplomato, pur continuando ad essere un ragazzo difficile, caratteriale al punto che non si sapeva come collocarlo nel mondo del lavoro.
L’eroina del nostro racconto era rimasta vulnerata da tre eventi: la morte violenta del padre, la nascita di un figlio problematico, la malattia della madre. Ma non sapeva che il bello era ancora in fieri. Ovvero, non aveva fatto i conti con i cinquant’anni del marito. Un’età terribile, questa, per alcuni uomini che credono di ringiovanire, di ringalluzzirsi, aggrappandosi alla giovinezza di ragazze extra moenia.
Forse avrete già capito che la badante dell’Est era graziosa, poco più che ventenne, molto geisha, molto furba, erotica al punto giusto.
E patatrac!
La povera Clotilde, ancora in cura da una psichiatra, per le spadate della vita, gli assalti del destino, cerca di raccogliere i cocci della sua esistenza, si sforza di farsi coraggio.
Il marito non ha mai smesso di assisterla, non l’ha mai abbandonata completamente. Piuttosto è la badante che ha abbandonato lui, dopo aver incontrato un uomo più danaroso.
Può darsi che i due sposi, ormai sessantenni, si rimettano insieme anche fisicamente.
Conosco entrambi e li stimo.
Vorrei il loro bene.
Ma che sia vero che il destino prende alloggio in un nome più o meno gradito?
Avevo iniziato con l’intenzione di scrivere un racconto di fantasia, ma – cammin facendo – mi sono, purtroppo, imbattuta in una storia vera. (g.g.)

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 04 Ottobre 2009

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