I racconti di Grazia


La sorella

La sorella
Non l’avevo mai incontrato quell’uomo di bell’aspetto che tanto aveva fatto soffrire mia sorella, né lei me ne aveva mai parlato, prima della sua fine, tutta sola nel cottage di montagna, rassegnata ad auto medicarsi le ferite, distrutta dai soprassalti del cuore, con in grembo quel venefico Dissolvenza. Eppure, vedendolo, capivo come si potesse perdere la testa per un uomo così, non solo per l’aspetto fisico che sprizzava virilità in modo naturale e non ostentato. Mi sono sempre piaciuti gli uomini di cui sento la forza, la decisione; in cui leggo nello sguardo e nel modo appena accennato di sorridere, una determinazione che potrebbe essere confusa con eccesso di autostima, pur essendo specchio di un clima interiore non del tutto imparentato con l’arroganza.
Il mio compagno – di cui tanto avevo magnificato l’eccezionalità, con l’amica al telefono – mi apparve piatto, al confronto col siciliano così vitale e commosso, senza gesti plateali.
Rimorso? Sì, forse ora si stava pentendo di aver rinviato l’incontro con la mia povera sorella maggiore tanto a lungo, al punto di distruggere ogni sua speranza ed aspettativa. Sembra assurdo dirlo, ma temevo e temo che dei due fosse proprio lui il più debole e il più pusillanime, nonostante le apparenze. Ci salutammo, imbarazzati, senza nessuna promessa di rivederci, mentre il mio compagno si avviava all’esterno, alla ricerca di un taxi.
I miei giorni continuarono sereni, ritmati dal film della mia vita in bianco-nero. Chi non preferirebbe un’esistenza in technicolor, anche se pericolosa come quella di mia sorella che, mortificandosi dentro la speranza di un amore impossibile, nei confronti di un uomo non abbastanza maturo da amarla profondamente, aveva però goduto momenti di gioia superiore? Oddio, proprio io che sono sempre stata tanto razionale e coi piedi per terra, attaccata ad un uomo gentile, che non scorda mai i miei compleanni, che mi sposerebbe ieri perché domani è tardi, che previene i miei desideri, comincio a provare un transfert, un desiderio di sostituzione, nei confronti di un animale maschio, appena visto, per niente frequentato, di cui non so nulla e su cui posso fare solo illazioni, abbandonandomi a fantasticherie?
Quella notte il mio sonno fu inquieto. I giorni ripresero a scorrere nel loro monotono ritmo, fatto di tanto lavoro, appuntamenti metodici per le mie maniacali cure estetiche. Ero ambiziosa e – non essendo colta come mia sorella, grande cultrice delle humanae litterae -, privilegiavo le cure del mio corpo: palestra, buone creme per il viso, maquillage sapiente, abiti di sartoria. Sapevo di avere uno charme costruito a tavolino, mentre la mia sventurata consanguinea, era il fascino fatto persona, dotata di una voce così personale da creare fatate sinestesie. La sua risata era uno scroscio di perle gentili, le sue piccole rughe un irresistibile geroglifico di storie scritte sul suo volto, proiezione di pensieri che io pure avrei voluto carpirle.
Ero distratta, disamorata, disincantata ogni giorno di più.
Possibile che stessi innamorandomi di un uomo per interposta persona?
Proprio io, tanto razionale e terragna?
Indossai il mio tailleur più glamour, quello che sottolinea la mia vita sottile e valorizza il mio corpo tanto curato. Maquillage leggero e accessori volutamente casual, mi fecero sentire una donna di classe, sebbene io sappia che lo stile dovrebbe essere un fatto naturale. E mi avviai verso Via Solferino, nell’ora in cui so che i giornalisti escono per un breve pasto affrettato. Sperando non fosse un suo giorno di corta, come si dice in gergo, passeggiai avanti e indietro, sempre più perdendo le speranze. Decisa a tornarmene a casa, in compagnia della mia disillusione, lo vidi uscire in compagnia di una collega, dalla chioma fulva e lo sguardo ammiccante.
Che speranza poteva avere il surrogato di un amore sofferto e ora condito da sensi di colpa?
Mentre stavo per retrocedere, non sapevo più se delusa o sollevata per lo scampato pericolo, sentii la sua voce calda di meridionalità chiamarmi forte, in mezzo alla gente, purtroppo sempre, col nome di mia sorella. E sì che nell’occasione del primo malinconico incontro avevo chiarito e ci eravamo spiegati.
“Scusami, è più forte di me, continuo a cadere in questo inganno . . .”
La rossa, intanto, aveva preso congedo, non so quanto seccata dall’insolita situazione.
“Pranziamo insieme? Con tua sorella andavamo sempre al . . .”
“Preferirei un luogo diverso. Non sono lei in nulla. Le somiglio solo perché ti ostini a vederla questa somiglianza. Non vorrei essere la cura dei tuoi sensi di colpa. Potresti fare molto male anche a me. E il mio compagno non merita un tradimento”.
“Sì, non lo merita, ma tu lo stai già tradendo. Anche in questo non somigli a tua sorella, per tua fortuna. Golosa della vita, sai che ogni lasciato è perso. Occhio non vede e cuore non duole.”
“Prendiamoci un giorno di vacanza. Milano, in primavera, è invivibile.”
“Non direi proprio . . .”
“Non ho trovato scusa migliore per convincerti a regalarmi qualche ora del tuo tempo.”
Non mi piacque telefonare al mio uomo accampando la scusa di un impegno improvviso, ma la pennellata di technicolor, subentrata quando meno me l’aspettavo, ebbe la meglio sulla mia buona coscienza.
Viaggiammo in silenzio, divisi tra la felicità e lo scontento.
Una casetta tuffata dento la pineta ci accolse, complice.
Sembrava una casa di bambola. Inquadrato dal rettangolo di una piccola finestra, quell’uomo rubato post mortem alla mia povera sorella, certamente aveva seguito, in anni passati – chissà con quante altre donne - il mutamento delle stagioni, ritmato da rose in boccio, poi roride corolle, quindi petali sfatti, come presto o tardi sarebbe diventata la mia vita, fatalmente, come accade alla vita di tutte, anche a quella delle donne più ambiziose.
Tutto si svolse secondo manuale.
Perché resistergli dal momento che mi ero lasciata portare nel suo buen retiro?
Mi prese senza tanti preamboli, e mi piacque.
Non è il caso di perdersi in ipocrisie.
Appoggiata al davanzale di quella complice finestra, carezzata da un refolo fresco, tentavo di fare il punto sulla situazione, cercando di immagazzinare nell’olfatto il profumo di quella stanza dove non avrei mai più messo piede, ne ero certa. E nell’udito volevo si coagulasse la ruvidezza erotica del suo dirmi: “sei tutta piena di me”. Sì. Lo ero in carne e pensieri. E l’avrei portato per sempre dentro il mio sleale immaginario, impresso come un timbro. Ormai ero marchiata dalle sue parole suadenti (“Sai di miele e di pepe” – mi aveva detto). Ma fuori c’era l’aria pulita e l’alba di perla avrebbe mitigato i miei tardivi sensi di colpa. Si vedeva a malapena il mare, attraverso la trina scompigliata degli aghi di pino e si poteva immaginare lo sciabordio delle onde, frangersi nella battigia.
Russava piano. Dormiva soddisfatto dalle sue maschie prove di potenza. Questo era il momento di interrompere per sempre il film a colori. Mi rivestii in fretta, quasi senza lavarmi, per non svegliarlo. Il pullman delle sei, trovato per caso, sul piazzale, mi condusse a Bologna, lasciandomi alle spalle scampoli di giardini abbandonati, spicchi di mare sempre più chiari, ragazzi con marsupi pieni di libri, donne normali che si recavano a fare la spesa. Gente qualsiasi, contenta di sopravvivere. Scesi a Milano, tutta sgualcita in abiti e pensieri. Dalla finestra di casa mia filtrava una pallida lama di luce, come se il mio compagno avesse dimenticato di spegnere l’abat jour.
La mia chiave entrò rapida nella toppa.
“Caro, sono tornata. “
Ora la mia vita avrebbe ritrovato il rassicurante tran tran del film in bianconero.

SECONDO FINALE

Vidi con orrore le sue valigie in corridoio.
“Caro, io torno e tu parti?”
Forse, al mio film sarebbe rimasto, ora, soltanto il nero.

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 22 Gennaio 2012

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