I racconti di Grazia


Polvere di vetro

Polvere di vetro


Si era raggrinzita, Caterina, un po’ come un frutto essiccato che perde la sua linfa e si copre di rughe. Anche la sua anima portava i segni del tempo. Era rimasta sola e zitella, senza illusioni, con pochi amici e lontani parenti.Verso i trent’anni aveva avuto un grande amore, l’unico della sua vita, ai cui ricordi si riscaldava ogni tanto, in dubbio se le fosse rimasto dentro più odio che amore. Quando ormai la sua vita aveva preso un pigro tran-tran di messe mattutine, cappuccino con brioche al bar sotto casa, dialoghi muti coi gatti del vicinato, e i suoi giorni scorrevano grigi come i suoi monotoni pensieri, lo rivide seduto a un tavolo del caffè. Sfogliava una rivista finanziaria, gli occhi di un azzurro tanto intenso da essere offensivo, erano velati da lenti. Anche lui invecchiava e aveva adottato gli occhiali, la calvizie si era allargata e il sole radente sulle vetrate del bar la screziava di misteriosi disegni, quasi la proiezione di un enigma interiore.
Gli si avvicinò senza esitazioni. Si sedette al suo tavolo con un sorriso tirato sulle labbra. Vedeva riflessa sul vetro la sua immagine di donna sfiorita, solo nel fondo del suo sguardo scuro c’era ancora un baluginio guizzante, ormai ricordo di una luce.
La mano larga di lui, coperta da un vello fitto, si protese verso la sua, facendola sprofondare nei ricordi, annegare nei rimpianti.
Uscirono insieme dal bar, senza parole.
Mi offri un caffè?» – le chiese lui.
«Lo hai appena bevuto» – fu la risposta sussurrata, quasi non detta di Caterina.
Ritornava fra loro il linguaggio anagrammatico: il caffè era la metafora dei loro incontri. Dopo la rottura non ne aveva più bevuti, solo l’odore la faceva star male.
Salirono in ascensore senza parlarsi, guardando altrove come due estranei, fingendo un distacco che li soffocava, più infelici che mai.
Caterina aprì le persiane nel salotto triste di casa sua.
Si sedettero sul divano come allora.
Le mani si congiunsero senza preamboli, le labbra si incontrarono quasi rassegnate a cancellare oltre un decennio di separazione.
Caterina provò desiderio, repulsione, malinconia di un piccolo trionfo, voglia di averlo, respingendolo.
La sua bocca aveva perso calore, le parve di essere seduta accanto ad un estraneo, di non avere più nulla da spartire con lui, eppure il suo corpo era ancora coinvolto, si vivificava sotto le sue mani.
Era l’anima che restava muta, fredda per aver troppo patito.
«Vuoi?» – le sussurrò con voce spenta, quasi una rauca profferta.
Combattè contro il desiderio fisico, sentì che darsi come una bestia l’avrebbe uccisa. Anche lui lo sentì.
«Perdonami, sono un animale da alcova» – le disse – e poi sarebbe inutile ricostruire qualcosa di irripetibile, non sono più lo stesso uomo.»
Caterina, per un attimo, ebbe l’illusione di tornare ad essere la donna di allora, ma fu solo una frazione di secondo, l’ombra di un minuto.
Come in un film dell’orrore, Giulio si alzò di scatto, balzò contro il vetro del balcone, quasi fosse una preda braccata, colpita da mille cacciatori. Di lui restò la sagoma di un corpo, stampata nella lastra, per terra cocci aguzzi e polvere di vetro.
Guardando meglio, Caterina, vi scorse in mezzo anche polvere di illusioni, l’alito di un fantasma.
Il suo cuore era sgombro, si sentì alleggerita, riprese gli slanci della giovinezza, l’incubo era finito. (g.g.)

(Tratto da L'anima del gatto, Grazia Giordani, 1990, Bagaloni Editore, pp.125, lire 20.000, da anni fuori commercio)
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Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 15 Dicembre 2019

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