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Il mito di San Pietroburgo
di Solomon Volkov, Mondadori

IL MITO DELLA FAVOLOSA «CAPITALE DEL NORD» DA PÙSKIN A BRÒDSKIJ
Non si può non restare incantati, addirittura presi dalla fascinosa malia, del mito arcano che aleggia intorno a San Pietroburgo, la città tre volte ribattezzata nel nome, la Nuova «Atlantide», fondata nel 1703 da Pietro il Grande sulla costa orientale del golfo di Finlandia, quale capitale dell’impero russo, divenuta Pietrogrado nel 1914 e Leningrado nel 1924 -, ritornata a chiamarsi San Pietroburgo nell’agosto del ’91 quando «i falchi a Mosca tentarono un colpo di Stato contro Gorbacèv. Il tentativo fallì, ma l’Unione Sovietica, la cui struttura stava già scricchiolando, crollò del tutto. Gorbacèv, isolato, perse il potere e il leader della nuova Russia indipendente divenne il neoeletto suo primo presidente, Boris Èl’cin. La Russia era libera dal dominio del partito comunista dopo più di settan’anni.[...]Leningrado questa volta ebbe soddisfazione. Ridiventò Sankt-Peterburg», considerata una vera perla architettonica, a livello mondiale, per i suoi palazzi che svettano maestosi sulle rive del cupo fiume Neva. La bellezza monumentale della città, con il Palazzo d’Inverno tanto armonioso che «sembra volare», non scevra da un incanto quasi mistico, quando i palazzi sembrano tuffarsi nell’opalescenza delle suggestive «notti bianche» del sorgere dell’estate, ci è descritta dalla penna di Solomon Volkov nel suo poderoso saggio San Pietroburgo, edito in Italia da Mondadori, e tradotto con intelligente cura da Bruno Osimo
Poggia metaforicamente su due poderose colonne il mito di San Pietroburgo: Aleksàndr Pùskin e Anna Achmàtova che aleggiano nel corso di tutta la narrazione dell’autore, regalando note profetiche e vagamente apocalittiche al tessuto del saggio, scritto con il rigore dello storico che sa anche guardare nel “retropalco” degli avvenimenti, entrando quasi negli «spogliatoi» della Storia, regalandoci note curiose, aneddoti, momenti di umanità che alleggeriscono la vis drammatica e spesso quasi esoterica della sua grande fatica letteraria atta ad offrirci una visione sinottica di storia, letteratura, arte, musica, costumi e difficili destini della sua amata Città.
«La figura centrale del mito di Pietroburgo - scrive Volkov - e per tanti aspetti la sua fondatrice fu Anna Achmàtova (pseudonimo della poetessa Anna Andreevna Gorenko ndr), divenuta la grande voce della città. Fin da giovane Acmàtova si creò la fama di Cassandra[...]. Già nel 1915 Pietrogrado appariva ai suoi occhi come una «città granitica di gloria e di disgrazia (Sui cari ho richiamato la rovina, /e uno dopo l’altro morti son./Dolore a me! Dalla parola mia/predette son le tombe di quaggiù). Nell’immaginario popolare Acmàtova si trasformò in una simbolica “vedova poetica”, prefica delle vittime della rivoluzione, della perduta grandezza di Pietroburgo, depositaria della sacra fiamma». Seguendo l’iter poetico della sua profetica voce, ci accorgeremo che ad Achmàtova (conosciuta personalmente dall’autore ventenne nel ‘65, quando soltanto per lei ha suonato, con l’ensemble del conservatorio di Leningrado di cui era primo violino, il Nono quartetto di Sostakòvic) si deve il mito di «Pietroburgo martire», poiché negli anni del terrore staliniano ha saputo creare nelle sue opere - soprattutto nel Requiem, rara sintesi lirica e testimonianza delle «terribili scene delle repressioni di massa» - il pathos della sua gente e della sua Città.
Achmàtova vide la luce a Kiev nel 1889, nello stesso anno di Charlie Chaplin, della Sonata a Kreutzer di Lev Tolstòj e della Torre Eiffel in una famiglia colta che adorava letteralmente il poeta simbolista Blok (1888-1921), con cui la poetessa intreccerà una “mitica” relazione, in carattere con la sua propensione naturale a creare appunto miti per sé e per la Città. Già negli anni dell’adolescenza Achmàtova attirava l’attenzione dei compagni per l’originalità della sua ieratica avvenenza, ma soprattutto per «l’orgoglio, la cocciutaggine e la natura capricciosa e per l’ottima conoscenza della poesia modernista». La vedremo sposata, in prime nozze, al poeta Nikolaj Gumilév (1886-1921), fondatore dell’«acmeismo» che, contrapponendosi al simbolismo -, poneva il fulcro della poesia nell’accettazione del mondo «senza riserve, in tutte le sue variazioni di difformità e di bellezze». A questo movimento, oltre ai coniugi Gumilev, presero parte Mandel’stàm e altri. Donna anticonformista, «al di sopra del bene e del male», Achmàtova non disdegnerà l’amicizia di Modigliani, inframmezzata da altri due matrimoni e da molte ancora relazioni, ultima, forse, quella tenerissima con il poeta Brodskij, da cui la dividevano non pochi lustri. Sarà proprio Òsip Mandel’stàm a dire della nostra poetessa : «Achmàtova ha portato nella lirica russa tutta l’enorme complessità e la ricchezza psicologica del romanzo russo dell’Ottocento. Non ci sarebbe Achmàtova se non fosse per Tolstòj di Anna Karénina, il Turgénev di Un nido di nobili, tutto Dostoévskij e, per certi aspetti, Leskòv». Particolare successo incontrò, dell’autrice la poesia Preghiera (Dammi anni amari d’acciacchi,/e d’affanno, d’insonnia, di febbre,/e riprenditi il bimbo, l’amico,/e il fatato mistero del canto...»). Certo è che se Achmàtova avesse potuto immaginare di possedere un così oscuro potere di Cassandra, per se stessa e per la sua città, forse non avrebbe mai innalzato quella nefasta «preghiera», visto che vent’anni dopo la sua «offerta» era stata accolta: si l’amico, sia il figlio le erano stati portati via (senza che le sofferenze della Russia ne traessero sollievo alcuno), anche furono proprio le circostanze biograficamente tragiche a rendere più intensa la forza della sua poesia. «Lo avvertì con acume anche il figlio. Tornato , dopo la morte di Stalin a Leningrado, dal pluriennale confino, accusò la madre: “per te, come poeta, se io fossi morto al campo, sarebbe stato persino meglio”». Agosto fu da sempre il mese a lei più «ostile», il suo primo marito Nikolàj Gumilev - nel 1921 - sarà fucilato dai bolscevichi e il suo terzo consorte Nikolàj Pùnin - dopo l’arresto nel 1949 - morirà in campo di concentramento in Siberia. E ancora in agosto nel ’46, fu adottata dal comitato centrale del partito comunista «l’infame risoluzione rivolta fondamentalmente contro Achmàtova e Zoscénko (nato nel 1895 ndr) ».
Osiamo avanzare l’ipotesi - pur non avendo la minima intenzione di voler essere irriverenti -, che quando questa Mater dolorosa pietroburghese profferiva luttuosi vaticinii, i suoi parenti vicini e i concittadini lontani cercavano di propiziarsi il Cielo, terrificati da tanto poetico potere di profetessa.
Veniamo alle seconda preannunciata «colonna portante» del mito di Pietroburgo, Pùskin (1799-1837), il Dante Alighieri dei russi che, con il suo poema Il cavaliere di bronzo - sottotitolato «Narrazione pietroburghese» -, descrive l’inondazione del 1824, una delle più rovinose fra quelle che hanno afflitto la città voluta da Pietro il Grande, in luogo paludoso, al confine della nazione. Nel suo epico poema, l’autore pone l’amletico dubbio se debba prevalere la ragion di Stato o quella dell’individuo. Vale più Evgénij - travolto dalle onde per colpa dell’improvvida scelta di Pietro che ha edificato la città in luogo tanto pericoloso - oppure il «Cavaliere di bronzo» (la famosa statua del sovrano contro cui si scaglierà lo sventurato ragazzo?) Nella Pietroburgo imperiale non è permesso - chiarisce Volkov - insorgere contro il monarca, nemmeno contro la sua statua. «Nel poema, il cavaliere di bronzo rappresenta non solo Pietro il Grande e la città da lui fondata, ma anche lo Stato e ogni forma di potere; anzi di più: esso rappresenta la volontà e la forza creatrice dalla quale dipende la vita delle società e con la quale finiscono inevitabilmente per scontrarsi i sogni e i desideri dei suoi membri, gli innumerevoli e insignificanti Evgénij». Il lettore del saggio continuerà inesorabilmente a sentire lo scalpiccio del cavallo puskiniano, presente in ogni pagina, poiché è ossessivamente, anche se variamente avvertito da tutti gli scrittori e musicisti del mondo pietroburghese
Probabilmente, leggendo testi specifici e separati di letteratura, musica, arte, balletto, politica, cinema, non ci sarebbe stato difficile finire col conoscere la Storia e forse anche il Mito di San Pietroburgo dal 1703 ad oggi. Avremmo potuto apprendere da altre fonti l’era di Lenin e di Stalin, gli anni del terrore, della stagnazione, del disgelo, dei Novecento Giorni di assedio con Hitler fuori porta e il sanguinario tiranno in casa, avremmo potuto essere informati delle disumane sofferenze che nulla avevano da invidiare a quelle inflitte dai nazisti, delle «purghe», della perdita di libertà fisica e spirituale, ma il merito di Volkov è anche quello di averci fatto penetrare dentro il mistero dello schizofrenico dualismo tra desiderio di cultura autoctona e voglia di occidentalizzarsi dell’anima russa, regalandoci una allure sinottica di tutta la materia, alloggiandola sotto l’immenso «porticato», sorretto dalle due imprescindibili «colonne». Ed è qui che incontriamo la perpetua ambivalenza di questa psiche slava, contraddittoria, aggrovigliata, spesso afflitta da sensi di colpa, lontana dalla gioia di vivere latina. Ecco sfilare Pietro il Grande illuminato e grossolano, collerico e gentile, sovrano assoluto eppure amante del suo popolo; Caterina che regnò trentaquattro anni (1762-1796) di cui Pùskin scriverà: «Se regnare significa conoscere la debolezza dell’animo umano e approfittarne, Caterina merita la meraviglia dei posteri. La sua magnificenza accecava, la sua cordialità allettava, la sua generosità obbligava»; ecco incontrare il dissenso dei decabristi nei confronti dell’illuminato zar Alessandro (non è contraddittorio odiare un monarca finalmente non assolutista?). Volkov, con grande capacità di visione globale, conduce il lettore fino all’eccidio di Nicola II, con la zarina Alessandra, e la famiglia al completo compreso il cane.
L’autore ci fa quindi entrare nel mondo della rivoluzione e delle successive dittature in cui la Città diventa l’eroe del «Poema senza eroe» - nuovo intensissimo capolavoro della tragica Sibilla Achmàtova - e, dopo essere sopravvissuta, contro ogni previsione, e dopo aver coltivato il proprio mito nella clandestinità, conquista finalmente il sospirato diritto a riprendere il proprio nome originario. Il cavaliere di bronzo continua la sua eterna cavalcata nella storia, ma - si chiede l’autore - : «Verso dove?». la meta è la Pietroburgo di Josif Bròdskij, martire del regime, accusato di «parassitismo doloso» e dei suoi compagni d’arte, indipendenti e tenaci poeti, scrittori, pittori, musicisti, dai quali dipende il destino spirituale della mitica Città.
«Il mio primo incontro con Bròdskij - scrive Volkov - avvenne a Leningrado agli inizi degli anni Settanta, ma [...] lo conobbi veramente solo a New York, dove mi trasferii nel ’76 dopo avere abbandonato l’Unione Sovietica». Il nome di Bròdskij - erede della linea americana del modernismo pietroburghese - viene affratellato spesso al nome di Nabòkov. La prima edizione sovietica della poesia di Bròdskij, è uscita nel ’90, subito esaurita. Negli States Volkov conobbe altri grandi fuoriusciti dalla sua terra, di cui fa menzione nel saggio.
La splendida rosa di sublimi e mai più eguagliati scrittori da Dostoévskij (magnificato dallo stesso Nietzsche) a Gogol, Nabòkov e Pasternak, per giungere - (passando attraverso musicisti della statura di Mùsorgskij, Caikòvskij, Sostakòvic e Stravìnskij) - senza trascurare i grandi del balletto (Balancin e Nureév) e della coreografia (Diagilév e Dmitriev), e del cinema (Averbàch, Gérman, Sokùrov), a Bròdskij, martirizzato ed espulso, insignito del Nobel, «anello di congiunzione tra Mandel’stam e Achmàtova da una parte e Stravinskìj, Nabòkov e Balancin dall’altra», chiude i suoi petali con la morte dI Achmàtova, custode della leggenda per cui fintantoché il Cavaliere di bronzo sarà al suo posto, Pietroburgo non perirà: «Dove tu andrai, fiero cavallo,/dove lo zoccol poserai?»
GRAZIA GIORDANI
Solomon Volkov San Pietroburgo Mondadori Pagg 555 Lire 60.000

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 12 Gennaio 2009

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