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Il vino della solitudine
di Irène Némirovsky, Adelphi

Un altro capolavoro della Némirovsky
Il “caso Némirovsky” resterà sempre aperto, finché Adelphi continuerà a curare l’opera omnia, iniziata con Le bal, proseguita con lo struggente capolavoro Suite francese, per giungere, man mano, proprio in questi giorni -, dopo il dipanarsi di romanzi tutti di forte valenza, a Il vino della solitudine (pp.245, euro 18). Tradotto con il solito accurato impegno, da Laura Frausin Guarino, il romanzo ci porta nel milieu non solo autobiografico della vita reale di Irène – che prenderà lo pseudonimo di Helène, ma anche in quello degli instabili movimenti politici e delle rivoluzioni che dominano quel momento storico nell’Europa dell’Est, ma anche del fermento culturale parigino che influenza la vita di Bella, nom de plume di Fanny Némirovsky, la fatua e crudele madre dell’autrice. La vita della scrittrice ucraina, nata a Kiev nel 1903 e morta ad Auschiwtz nel 1940, ormai è storia nota, ma mai come in queste pagine, l’autrice si era lasciata andare, narrando, con la consueta prosa lucida e persino spietata, la sofferta realtà del rapporto doloroso con una madre accecata dalla superbia e dall’egoismo, avida dei soldi del marito, nei confronti del quale nutre solo un legame malato con la sua ricchezza. Anche in David Golder e soprattutto in Jezabel, il tema dell’aspro rapporto madre-figlia era stato trattato in varie sfumature, ma nelle pagine dell’attuale romanzo più decisamente autobiografico, l’amore assente di una madre distante negli affetti e dissoluta al punto da congiungersi quasi sotto gli occhi della figlia, col giovane cugino, divenuto suo pupillo e amante, raggiunge un acme più serrato e deciso.
Bella Karol viveva soprattutto per se stessa e di se stessa, tanto che usava avvicinare a sé la lampada «lasciando gli altri al buio e sospirava con un’espressione annoiata e stanca, arrotolandosi una ciocca di capelli su un dito. Era alta, ben fatta, con un “portamento da regina”, ma tendeva a ingrassare, e così ricorreva a quei busti a forma di corazza che le donne erano solite indossare all’epoca con i seni appoggiati dentro a due tasche di raso come i frutti in un canestro. Le belle braccia erano bianche e incipriate. Quando vedeva accanto a sé quelle carni nivee, quelle mani bianche e inoperose, dalle unghie tagliate ad artiglio, Helène provava una sensazione strana, molto simile alla ripugnanza».
Per fortuna l’istitutrice francese è l’esatto opposto della madre ed è l’unico appiglio affettivo per la ragazzina nell’aridità d’amore in cui vive, col padre sempre assente ad accumulare danaro e la madre presa solo dalle sue frivolezze e dai suoi amori extraconiugali.
Costretta dal bon ton materno, tutta apparenza, a baciarla sulle guance, Helène sarebbe piuttosto contenta di graffiarla e farla sanguinare, punendo in tal modo chi non sa rassicurarla, dandole quella tenerezza che ogni figlia normale vorrebbe ricevere.
Fatalmente, però, verrà un giorno in cui la madre comincerà ad invecchiare e la ragazzina sarà nel fiore dei suoi diciott’anni. Accadrà a Parigi, dove la famiglia si è stabilita dopo la guerra e la rivoluzione di ottobre e la fuga attraverso le vaste pianure gelate della Russia e della Finlandia, durante le quali l’adolescente ha avuto una sua prima esperienza sentimentale.
Sembrerebbe giunto finalmente per lei il momento della vendetta: «Ti farò piangere come tu hai fatto piangere me!» Ma Helène ha altro cervello e cuore, rispetto alla madre e capirà che la solitudine può essere un momento di meditata salvezza e maturazione, anche se da un’infanzia infelice – usava dire la Némirovsky – non si guarisce mai. Eppure, pochi scrittori hanno saputo descrivere in maniera tanto coinvolgente una simile addolorata esperienza.
Grazia Giordani

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 10 Aprile 2011

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