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Le notti sembravano di luna
di Laura Bosio, Longanesi

Ai tempi del boom volevano la bici anche le bambine
Chi ha avuto modo di leggere ed apprezzare Le stagioni dell’acqua, finalista al Premio Strega nel 2007, ritroverà nel nuovo romanzo di Laura Bosio, Le notti sembravano di luna (Longanesi, pp. 214, euro 16,60) l’originalità di stile di un’autrice che sa giocare con sogno e realtà, tenendoci incollati alla pagina.
Forse autobiografico, ma non in maniera stretta, pedestre, concedendosi piuttosto voli nel mondo fatato dell’immaginario, la Bosio ricorre, questa volta, all’escamotage di servirsi di una “voce”, quasi un super io che spezza la narrazione di una donna che si guarda alle spalle e si rivede bambina, ovvero torna ad essere Caterina Guerra che vive in una piccola città padana, costeggiata da un fiume, luogo che ama e idealizza in un palazzo principesco, ove i viali sono lunghi corridoi, le piazze enormi anticamere, le case altrettante stanze. L’appartamento in cui abita ha l’unico pregio di affacciarsi su orti e cortili. Di fronte sorge la fabbrica dove lavora il padre, caporeparto, inorgoglito dal traguardo raggiunto, ma afflitto dalla situazione familiare, il cuore trafitto dalla gelosia.
Caterina cova l’irrealizzabile sogno di diventare ciclista, come i campioni del Giro.
Persino le sue bambole sono vestite da ciclista e la sua esistenza sembra volare sulle ruote dell’adorata bicicletta.
‹‹Avevo in mente di raccontare l’infanzia – afferma l’autrice - , o meglio, un’infanzia attraverso una storia che ridesse vita e forma a quel periodo della vita, quando tutto è nuovo e importante, tutto incuriosisce e allarma e sembrano esistere forze misteriose.›› E l’intento ci appare perfettamente raggiunto dentro l’affresco datato tra il 1963 e il 1964, ricreando anche l’atmosfera del boom economico di quei tempi, senza mai dismettere un tono piacevolmente favolistico, con quel padre umanissimo e vulnerato dalla gelosia che ha l’uso di fare solitari comizi, rivolto agli orti, dal terrazzo dietro casa, per sfogare inquietudini e frustrazioni e quella madre eccentrica, bella – ai nostri occhi piuttosto egoista, tesa a pensare a se stessa, avara di tenerezze nei confronti della figlia.
C’è tutta una galleria di personaggi, visti dagli occhi di Caterina – in quel momento storico in cui le lotte sindacali si facevano sempre più aspre e si preparava un capovolgimento dei costumi – a fare da controcanto alla narrazione spesso venata anche di senso dell’umorismo. E così c’è il nonno, detto l’Anarchico, che costruisce fisarmoniche, la nonna Suocera (ad alcuni personaggi non viene dato il nome di battesimo) che disapprova tutto e tutti; la zia Giocatrice che si rovina col gioco delle carte o la cugina Grande che spaventa Caterina, portandola a spasso per i viottoli del cimitero dove il padre è detto il Guardiano, forse un po’ troppo affettuoso, a nostro avviso, con la madre della protagonista.
La bambina è cresciuta. E il finale è dolce, come nelle favole belle, anche se il suo sogno di diventare ciclista non si è avverato. Ormai pedala incontro alla vita, anzi dentro alla vita.
Grazia Giordani
pubblicato sabato 1 ottobre 2011 in Arena, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 02 Ottobre 2011

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