Recensioni e servizi culturali


Il mondo libero
di David Bezmozgis, Guanda

Sradicati e tragici ma con leggerezza gli ebrei sovietici
Non è difficile credere che David Bezmozgis – nato a Riga in Lettonia nel 1973 - sia considerato dal “New Yorker” uno dei venti migliori scrittori americani under 40, dopo lo strepitoso successo della sua opera prima Natasha, ora pienamente confermato dalla grande accoglienza, da parte di critica e lettori, del nuovo romanzo Il mondo libero (Guanda, pp.351, euro 18,50. Traduzione di Corrado Piazzetta).
Non mancano di sicuro i precedenti parlando di ebrei erranti – argomento clou del libro - , basterebbe infatti pensare a Isaac B. Singer o a Henry Roth, solo per fare due nomi importanti, ma Bezmozgiz ha una sua amara soavità che ci avvince e diverte, persino nella catastrofe che va narrando.
Siamo nella Roma del 1978, tra la morte di Paolo VI da poco eletto e l’elezione del suo successore, in una città caotica e imbrattamuri che scandalizza gli ebrei russi, gli ex cittadini sovietici, abituati all’ordine e alla disciplina, arrivati nell’Urbe in attesa e nella speranza di essere trasferiti negli Stati Uniti. E qui troviamo la famiglia lettone Krasnansky al completo: il patriarca Samuil, vecchio funzionario del partito comunista e veterano dell’Armata rossa con la moglie Emma, i figli Alec e Karl con le rispettive mogli Polina e Rosa e i due figli di quest’ultimi. Per cinque lunghi mesi, dopo essersi lasciati alle spalle Riga e il comunismo di Breznev, i protagonisti della narrazione, insieme a centinaia di transfughi sovietici, legati dallo stesso incerto destino, aspettano i visti per il grande viaggio della speranza verso un tanto sognato mondo libero. Non è che Roma appaia loro incantevole come forse l’avevano vagheggiata, tanto che non riescono nemmeno ad assaporarne l’artistica bellezza, colpiti dall’accoglienza ‹‹dura, sgarbata e inospitale ›› della Città Eterna. E questo non ci fa certo onore, ma la storia è storia sic et testualiter.
Samuil è un vecchio comunista tutto d’un pezzo, infastidito al massimo di aver lasciato l’amato socialismo e i privilegi di cui godeva in patria, mentre il figlio Karl sogna di approdare presto nel bengodi del capitalismo e il fratello minore, Alec, è un eterno immaturo seduttore compulsivo di belle ragazze. Polina, ha sposato Alec, lasciando il primo marito Maksim, forse cadendo dalla padella nella brace, è l’unica del gruppo a non essere ebrea. E, fra le donne della narrazione, è certamente la più complessa ed importante. Così piena di incertezze e nostalgie, in rapporto epistolare con un’amatissima sorella rimasta in patria, è la figura del romanzo che suscita la nostra più grande comprensione. Sono ebrei un po’ sui generis – quelli tratteggiati da Bezmosgiz – perché nessuno degli uomini è né credente né sionista (anche se le loro frequentazioni sono solo ebraiche e parlano spesso di Begin e Sadat); in Israele non si sognano nemmeno lontanamente di voler andare, considerandolo troppo impegnativo, pericoloso. La storia procede secondo il punto di vista dei personaggi principali. L’autore sceglie il romanzo corale dalla voce di un narratore esterno, alternando capitoli dal punto di vista ora di Samuil, ora di Polina o di Alec che continua a vedere il mondo in termini di femmine e facilità (l’incapricciarsi per Masa gli procurerà una catastrofe coniugale). I Krasnansky dovranno rinunciare a Chicago e scelgono come meta il Canada. Nei cinque mesi di stazione nella capitale italiana si snodano e annodano le vicende della loro tragicommedia. E Samuil ci appare a tinte forti con alle spalle assassinii familiari subiti dai pogrom o dai nazisti; figura del rammarico e del rancore scrive in segreto una memoria della lotta e della rivoluzione proletaria, perché non si sente un emigrante mistificatore. In questa sua scrittura s’illude di ritrovare i suoi “adorati defunti”, primo fra tutti il fratello Reuven, di cui conserva le lettere dal fronte. Samuil è un testardo. Gli piacciono solo i ricordi della Rivoluzione. Polina e Alec sono figure più fragili, meno intense, ma tracciate pure con mano maestra, in un romanzo senza vero plot narrativo, dove anche le tragedie finiscono con farsi leggerezza, tanta è la levitas e l’ironico afflato letterario dell’autore.
Grazia Giordani
Pubblicato sabato 10 marzo 2012 nei consueti tre quotidiani

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 14 Marzo 2012

Torna all'indice delle Recensioni