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I fantasmi del cappellaio
di Georges Simenon, Adelphi

Grande Simenon Ogni libro è meglio del precedente
Gli appassionati dei romanzi di Simenon quasi certamente, ad ogni nuova ristampa Adelphi che ne sta curando l’opera omnia, sono attraversati dal pensiero che stanno leggendo l’opera più bella , magari per venire smentiti dal romanzo successivo, tanto il fascino letterario è in continuo progress da parte del prolifico e grande scrittore.
E questo è il caso, appunto, de I fantasmi del cappellaio (pp.238, euro 10, traduzione di Laura Frausin Guarino, a cura di Sandro Volpe), singolare già dalla nascita, visto che scritto a Tumacacori (Arizona) nel dicembre del 1948 e apparso a stampa l’anno seguente, rappresenta la terza rielaborazione di un soggetto insistito ed insistente nella fantasia dell’autore, ovvero la condivisione di un orribile segreto. Al primo racconto Il piccolo sarto e il cappellaio, composto nel marzo del 1947, il romanziere fece seguire a poca distanza Beati gli umili – modificato nel finale -, con cui vinse il premio messo in palio dall’ ‹‹Ellery Queen’s Mystery Magazine››. In appendice al romanzo possiamo leggere, per completezza della trilogia, sia il primo racconto che l’ultimo capitolo del secondo.
Siamo a La Rochelle, in una cupa atmosfera invernale, sferzata da una pioggia battente. E ben sappiamo quanto Simenon sia abile nel farci entrare, in contemporanea a quello esteriore, nel paesaggio dell’anima dei suoi personaggi. Nel vapore di una perenne umidità ci è dato entrare nel cupo e rassicurante negozio del cappellaio Labbé, dirimpettaio dell’abitazione-laboratorio del sarto armeno Katchoudas che conduce una povera vita, ricco solo di una folta prole. I due dirimpettai sembrano spiarsi a vicenda, tanto le loro esistenze sono contigue, pur nella diversità economica che li separa. Labbé ha un terribile segreto che ci fa ripensare al film Psycho. Mantiene dietro la finestra del piano superiore il simulacro di Mathilde, l’asfissiante, insopportabile moglie che, inferma, dopo la malattia, ha soppresso perché gli ha reso la vita un invivibile inferno.
La tranquillità delle strade, battute dalla pioggia, viene scossa da una serie di omicidi di anziane signore e comincia la caccia all’assassino. I commercianti hanno organizzato delle ronde. Un giovane giornalista, Jeantet, conduce un ‘indagine parallela a quella della polizia e ha intuito che l’assassino è un uomo stimato, che non dà nell’occhio, un insospettabile serial killer, insomma.
Alle cinque in punto tutte le sere i due dirimpettai si recano al bar del centro a sorseggiare i loro aperitivi. L’armeno sembra seguire il cappellaio con timida, ma ostinata puntualità. Tutti sanno che l’assassino scrive lettere premonitrici al quotidiano locale, ritagliando i caratteri a stampa e ricomponendone le parole. Una fatidica sera Katchoudas raccoglie dalla piega dei pantaloni di Labbé un rettangolino di carta rivelatore, ma non fa nulla per evitare il sesto delitto, ne è quasi testimone mentre sta pedinando il cappellaio (‹‹Il rumore fu quasi impercettibile, come il frullo di un fagiano che si alzi in volo da un bosco››). Il sarto vorrebbe denunciare il cappellaio alla polizia, ingolosito anche dalla lauta ricompensa messa in palio, ma desiste, intimorito dalla minaccia di Labbé: ‹‹Al suo posto non lo farei, Katchoudas››.
Il cappellaio scrive ancora una lettera al giornale, preannunciando la “necessità” di una settima e ultima vittima. Sembrerebbe impossibile andare incontro a tante sorprese e colpi di scena in un romanzo in cui, già nell’incipit, conosciamo l’assassino. Eppure è proprio così. E non aggiungiamo altro per non rovinarvi la sorpresa, certi di aver detto persino troppo.
Grazia Giordani
Pubblicato giovedì 12 aprile 2012 nei consueti tre quotidiani

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 14 Aprile 2012

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