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La preda
di Irene Némirovsky, Adelphi

Crudele dolcezza Irène ricorda Balzac e Stendhal
Parigi anni Trenta vulnerata dalla Grande Crisi : questo è il fondale su cui scorrono gli avvenimenti narrati da Irène Némirovsky ne La preda (Adelphi, pp. 212, euro 18, traduzione di Laura Frausin Guarino).
Protagonista è un giovane uomo, Jean- Luc Daguerne, disposto ad ogni compromesso pur di elevarsi dalla condizione di miseria a cui lo destina la nascita. Non è affamato di danaro in quanto tale, ma delle agevolazioni che la ricchezza può procurargli. Ha fame di successo, di potere e di rivalsa sociale, perché – nella sua ottica – è la società ad indurlo a questo metro di vita. Raggiunge lo scopo attraverso un matrimonio estorto con la forza ad una famiglia dell’alta finanza, politicamente compromessa. La penna prodigiosa di Irène – che per questo romanzo fu paragonata a Stendhal e a Balzac -, non si limita a descrizioni fisiche del personaggio che la sconfinata ambizione disumanizza. Infatti, Jean-Luc cambia aspetto e tono di voce e a punirlo per la sua indifferenza al prossimo, la sua smodata sete di successo, sarà un elemento da cui si credeva del tutto estraneo e lontano: il sentimento d’amore. Così da predatore spietato diverrà egli stesso preda, preda senza possibilità di scampo.
Quando la ‹‹sua anima, come una nave nella burrasca è trascinata verso ignoti abissi››, quando Jean-Luc scoprirà nel suo cuore ‹‹quel desiderio di tenerezza, quel disperato bisogno d’amore di cui pensava di non conoscere nemmeno l’esistenza, proprio lui che sempre aveva sognato, senza scrupoli, di ‹‹afferrare il mondo a piene mani››, proprio lui, dopo le male azioni compiute e l’assenza di scrupoli si troverà di fronte all’impossibilità di farsi amare dall’unica donna nelle cui braccia abbia avvertito pace e redenzione. A questo punto, non gli importerà più nulla del successo, delle cariche, della carriera politica, di quanto aveva cercato di arraffare con cuore inaridito e si chiederà che senso abbia avuto una vita così amorale, pur di raggiungere i suoi scopi. A questo punto il patto faustiano si rivelerà una presa in giro e il successo perderà tutta la sua luce ingannatrice.
Lo splendido romanzo appartiene al filone francese della narrativa némirovskyana, ambientato nel paese che l’accolse esule negli anni Venti, fuggita con la famiglia da una Russia devastata dalla rivoluzione e passata poi per un nord Europa difficile. Parigi sembrava aver accolto con simpatia la sua famiglia di ricchi banchieri. Conoscendo dall’interno il mondo corrotto della finanza (vedasi il David Golder che, giovanissima, le fruttò strepitoso successo anche cinematografico e teatrale) sa tradurlo in trame smaliziate di romanzi attraversati dalle dinamiche più perverse che , proprio nel clima di famiglia dell’alta finanza, ha potuto toccare con mano.
Scritto nel ’38, quando già le leggi razziali facevano sentire la loro perversa voce e nubi minacciose si addensavano all’orizzonte, la Némirovsky – accolta dalla Francia, ma pur sempre russa ed ebrea – dovette accettare per necessità di pubblicarlo su Gringoire (rivista poi riconosciuta come apertamente antisemita). Com’è ormai storia nota, nel ’42 sarebbe poi stata proprio la Francia che mai le concesse la cittadinanza, a mandarla ad Auschwitz.
Uno dei romanzi più forti e commoventi, con drammatico finale a sorpresa, condotto addirittura con allure di apologo, questo della grande russa-francese, una scrittrice che non finiremo mai di rimpiangere e che non finirà mai di stupirci anche per l’ossimoro della sua crudele dolcezza.
Grazia Giordani
pubblicato nei consueti quotidiani domenica 11 novembre 2012

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 20 Gennaio 2013

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