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Il grande mare dei Sargassi Quartetto
di Jean Rhys, Adelphi

JANE EYRE IL PREQUEL
ANE EYRE IL PREQUEL
RISCOPERTE. Da Adelphi i romanzi di Jean Rhys, grande dimenticata
La risposta postcoloniale al libro di Charlotte Brontë «Il grande mare dei sargassi» fa protagonista la folle reclusa Bertha e narra le sua origini nei Caraibi
Fama postuma: una foto con dedica di Jean Rhys (1890-1979)

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Il mondo della letteratura è più che mai un paese straniero, percorso da vicoli oscuri che possono riprender luce in modo improvviso, uscendo dall’insidia dell’oblio. Specialista nei repêchages di scrittori altrimenti dimenticati è da anni l’Adelphi che propone ora, a breve distanza, Quartetto (172 pagine, 16 euro, traduzione di Franca Cavagnoli ) e Il grande mare dei sargassi (171 pagine, 12 euro, traduzione di Adriana Motti), entrambi opera di Jean Rhys, scrittrice britannica di origine caraibica. La fama di questa scrittrice, dotata di un inquietante realismo magico, soprattutto nella parte centrale del Mare dei sargassi, che sarebbe piaciuto a Garcia Marquez e forse anche alla nostra Elsa Morante, ha un’allure più che mai altalenante. In effetti, i suoi primi quattro romanzi, pubblicati tra gli anni Venti e Trenta, lasciarono muta la critica che si accorse di lei, assieme ai suoi lettori, molto tardi, col più sopra citato romanzo, nel 1966, quando ormai l’autrice aveva compiuto 76 anni. Nel 1977, per merito di questo romanzo, vinse il WH Smith Literary Award. Fama arrivata, purtroppo, molto in ritardo. Prequel di Jane Eyre, risposta postmoderna e postcoloniale al capolavoro di Charlotte Brontë, Il grande mare dei sargassi rende protagonista un personaggio minore dell’opera brontiana: la folle reclusa, l’esotica Bertha Mason, moglie di Rochester, relegata in soffitta, vulnerata da una pericolosa pazzia. Questa labile ombra, trasformata in primadonna dalla penna della Rhys, diventa Antoinette, una bellissima creola che vive la propria infanzia su un’isola caraibica nel periodo immediatamente successivo all’abolizione della schiavitù giamaicana. Per metà bianca, quindi disprezzata dai nativi locali, e per metà legata alla cultura indigena, prova, fin dagli anni infantili, l’esperienza dell’isolamento e dell’apartheid. Una vita, fin dagli esordi, sventurata, quella della giovane, con l’eredità della pazzia che già porta sulle spalle: la madre ricoverata in manicomio e la cura della sua educazione affidata ad una mami, cultrice della magia, che contribuirà a incrinare il matrimonio con il marito inglese (nel romanzo di Jean Rhys innominato, ma che noi lettori sappiamo essere Rochester) pronto, per gelosia, a strapparla dalla sua terra, per rinchiuderla nella tetra soffitta del castello inglese. L’incipit e la fine del romanzo hanno un certo parallelismo con l’opera della Brontë; la parte centrale è quella che maggiormente incuriosisce il lettore, così venata di visionarietà ed esotica magia. Quartetto, uscito nel 1928 nell’indifferenza totale di critica e lettori, è in realtà una piccola perla autobiografica. Nel 1981 — tutto avviene sempre in ritardo, per questa sfortunata scrittrice — James Ivory sceglie Quartetto addirittura per trarne un film, ma la Rhys è già morta da tre anni. Il romanzo è la storia di un singolare ménage à trois, protagonista Marya che vive a Parigi da quattro anni, proveniente dall’Inghilterra ed è sposata con Stephan, un mercante d’arte di origini polacche. L’atmosfera è quella dei film di Carnet con caffè bui e fumosi, squallide camere d’albergo. Marya, nonostante il carattere distaccato del marito, sembra relativamente felice. Quando gli affari loschi di Stephan lo portano in prigione, la donna cade in preda allo sconforto e al terrore del futuro. E resta invischiata in una relazione torbida, accettando l’ospitalità di una coppia che le cede una camera libera nel proprio appartamento. All’inizio, Marya pensa di aver trovato il rimedio al suo precario stato, ma poi è attraversata da repulsione e nel contempo dall’incapacità di sciogliere l’ambiguo legame. Al di là della trama, il romanzo è attraversato da messaggi subliminali che ci parlano di fragilità e di autodistruzione, proprie, purtroppo, all’autrice stessa che sa mantenere, nella scrittura, un ritmo tutto suo che allude senza tutto svelare, creando il fascino di un’allucinata realtà sospesa.
Grazia Giordani
Adriana Motti), entrambi opera di Jean Rhys, scrittrice britannica di origine caraibica. La fama di questa scrittrice, dotata di un inquietante realismo magico – soprattutto nella parte centrale de Il mare dei sargassi – che sarebbe piaciuto a Garcia Marquez e forse anche alla nostra Elsa Morante, ha una allure più che mai altalenante. In effetti, i suoi primi quattro romanzi, pubblicati tra gli anni Venti e Trenta, lasciarono muta la critica che si accorse di lei, assieme ai suoi lettori, molto tardi, col più sopra citato romanzo, nel 1966, quando ormai l’autrice aveva compiuto 76 anni. Nel 1977, per merito di questo romanzo, vinse il WH Smith Literary Award. Fama arrivata, purtroppo, molto in ritardo. Prequel di Jane Eyre, addirittura risposta postmoderna e postcoloniale al capolavoro di Charlotte Brontë, Il grande mare dei sargassi presenta innanzi tutto l’originalità di rendere protagonista della narrazione un personaggio minore dell’opera brontiana, quello da noi conosciuta come la folle reclusa, l’esotica Bertha Mason, moglie di Rochester, relegata in soffitta, vulnerata da una pericolosa pazzia. Questa labile ombra, trasformata in protagonista, dalla penna della Rhys, diventa Antoinette, una bellissima creola che vive la propria infanzia su un’isola caraibica nel periodo immediatamente successivo all’abolizione della schiavitù giamaicana. Per metà bianca, quindi disprezzata dai nativi locali e per metà legata alla cultura indigena, prova, fin dagli anni infantili, l’esperienza dell’isolamento e dell’ apartheid. Una vita, fin dagli esordi, sventurata – quella della giovane – con l’eredità della pazzia che già porta sulle spalle: la madre ricoverata in manicomio e la cura della sua educazione affidata ad una mami, cultrice della magia, che contribuirà ad incrinare il matrimonio col marito inglese (nel romanzo innominato, ma che noi lettori sappiamo essere Rochester) pronto, per gelosia, a strapparla dalla sua terra, per rinchiuderla nella tetra soffitta del castello inglese. L’incipit e la fine del romanzo hanno un certo parallelismo con l’opera della Brontë, la parte centrale è – a nostro avviso – quella che maggiormente incuriosisce il lettore, così venata di visionarietà ed esotica magia.
Quartetto, uscito nel 1928, nell’indifferenza totale di critica e lettori, è in realtà una piccola perla autobiografica. Nel 1981 – tutto avviene sempre in ritardo per questa sfortunata scrittrice – James Ivory sceglie Quartetto addirittura per trarne un film, ma la Rhys è già morta da tre anni. Il romanzo è la storia di un singolare ménage à trois, protagonista Marya che vive a Parigi da quattro anni, proveniente dall’Inghilterra ed è sposata con Stephan, un mercante d’arte di origini polacche. L’atmosfera è quella dei film di Carnet con caffè bui e fumosi, squallide camere d’albergo. Marya, nonostante il carattere distaccato del marito, sembra relativamente felice. Quando gli affari loschi di Stephan lo portano in prigione, la donna cade in preda allo sconforto e al terrore del futuro. E resta invischiata in una relazione torbida, accettando l’offerta di ospitalità di una coppia che le cede una camera libera nel proprio appartamento. All’inizio, Marya pensa di aver trovato il rimedio al suo precario stato, ma poi è attraversata da repulsione e nel contempo dall’incapacità di sciogliere l’ambiguo legame Al di là della trama, il romanzo è attraversato da messaggi subliminali che ci parlano di fragilità e di autodistruzione, proprie, purtroppo, all’autrice stessa che sa mantenere, nella scrittura, un ritmo tutto suo che allude senza tutto svelare, creando il fascino di un’allucinata realtà sospesa..
Grazia Giordani
Pubblicato lunedì 4 giugno nei consueti tre quotidiani

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 04 Giugno 2013

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