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Io sono vivo voi siete morti
di Emanuel Carrere, Adelphi

Attorno alla vita svitata del creatore di Blade Runner
Chi ha apprezzato la biografia romanzata «Limonov», scritta dalla bella penna del parigino Emmannuel Carrère, leggerà dello stesso autore, una nuova biografia in «Io sono vivo, voi siete morti» (Adelphi, pp.351, euro 19, traduzione di Federica e Lorenza Di Lella), in cui Carrère con un’attenzione chirurgica, persino a volte troppo pignola, per il dettaglio, decide di raccontare la vita vissuta e sognata di Philip K. Dick, una delle sue passioni adolescenziali mai diminuita negli anni. Assieme all’autore compiremo così un viaggio più che inquietante dentro un’esistenza che è stata un’ininterrotta, deragliante indagine sulla realtà della svitata vita di un autore, noto in vita esclusivamente nell’ambito della fantascienza, divenuto, in morte, come spesso accade, un vero e proprio scrittore di culto, anche in seguito al successo del film Blade Runner del 1982, liberamente ispirato a un suo romanzo. Insomma, doveva morire perché lo rivalutassero come un autore postmoderno per cui gli sono stati dedicati molteplici studi critici che lo collocano ormai tra i classici della letteratura contemporanea. Indovinatissimo l’esergo introduttivo di Carrère che cita, dal discorso pronunciato da Philip K. Dick a Metz il 24 settembre 1977: «Sono certo che non mi credete davvero, e forse non credete nemmeno che ci creda io stesso. Eppure è la verità. Siete liberi di credermi o meno, ma vi giuro che non sto scherzando: è una cosa molto seria, una questione importante. Certo, capirete che anche per me una simile affermazione è di per sé sconcertante. Molti sostengono di ricordare un’altra, diversissima, vita presente. Che io sappia, nessuno ha mai affermato una cosa del genere, ma ho il sospetto di non essere l’unico ad aver fatto questa esperienza. Ciò che è unico è la mia disponibilità a parlarne». Per meglio addentrarci dentro le anse contorte di questa vita sui generis, è bene risalire a fatti strettamente autobiografici, seguendo la scrittura di Carrère. Il 26 gennaio 1929 Jane K. Dick, una gracile neonata nata prematura poco più di un mese prima, veniva sepolta nel cimitero di Fort Morgan, Colorado. Sulla stele della sua tomba i genitori fecero incidere anche il nome e la data di nascita del fratello gemello a lei sopravvissuto, Philip, appunto. La data di morte, dopo il trattino, fu aggiunta solo il 2 marzo 1982, quando dopo cinque giorni di coma, l’uomo di mezza età che quel neonato era diventato, fiaccato da ripetuti attacchi cardiaci, chiuse gli occhi alla vita. In mezzo a queste due date, Carrère ci fa sentire l’esistenza tormentata di uno degli scrittori più originali e prolifici del 900, dal divorzio dei suoi genitori, quando lui aveva solo cinque anni, al trasferimento a Berkeley , dalla scoperta della musica classica, alla passione per le riviste di weird science, dalla psicoanalisi che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita – assieme all’abuso di psicofarmaci – all’incontro con la moglie Kleo – pasionaria di sinistra braccata dal maccartismo, dalle prime ossessioni di vivere una vita parallela, alla relazione con la vedova vicina di casa che diventò la sua seconda moglie, considerando la nascita della figlia Laura, sempre in mezzo a paranoie, allucinazioni, deliri, crisi mistiche. Prodigiosa la capacità di Carrère di cucire insieme alla vita sballata dell’autore di Ubik, La svastica sul sole, eccetera, la formazione dei suoi romanzi in una straniante girandola, vera prova di bravura. Certo, un libro da leggere se si hanno nervi saldi e nessuna tendenza alla depressione.
Grazia Giordani



In Arena mercoledì 25 maggio 2015

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 17 Giugno 2016

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