I racconti di Grazia
La Cinese
Dicono che io sia un uomo ancora prestante, anche
se la mezz’età mi ha portato via un po’ di capelli e diminuito
le diottrie, ma mi consolo pensando che la calvizie oggi è à la
page e lo sguardo “trasognato” piace alle donne. Quindi tutto okay,
tutto a posto. E ne ho avuto conferma ieri sera, durante il récital-concerto
in memoria di Fabrizio De Andrè, il mio idolo, tenuto in un teatro di
provincia, straripante di un pubblico composto, in carattere con la musica gioiosamente
funebre di quel grande che sapeva parlare della morte con l’ apparente
indifferenza di Guido Gozzano. Lo so che il paragone vi apparirà improprio,
anche perché preceduto dall’ossimoro del “tenebrismo”
illuminato dalla gioia, ma questo è quello che sento, quando suono e
canto musica e parole del mio Faber.
Un concerto riuscito, insomma, quello di ieri e che mi ha fatto riassaporare
piaceri antichi, intendo un tuffo nel passato, senza struggenti nostalgie; questa
volta vi parlo di ritrovati flash di giovinezza, lievi perché sulle ali
del ricordo, seppur scaldati da una folata di sensualità. Una situazione
che sarebbe piaciuta al miglior Brancati, anche se il teatro dell’azione
non era la Sicilia, ma la festosa Bologna di un trentennio fa. Lo so che sono
lungo nei preamboli, ma i piaceri, anche solo ricordati, vanno gustati lentamente,
devono sciogliersi in bocca come un bonbon, una chicca dai compositi sapori
che la lingua trascina sul palato e non vorrebbe si sciogliesse troppo in fretta.
Ebbene – vi dicevo – una serata bella, anche per l’insperato
incontro che mi ha regalato, quando, dal proscenio, avvicinandomi al pubblico,
ho rivisto quegli occhi. Gli occhi della Cinese. La chiamavamo così,
negli anni della mia adolescenza bolognese, quelli delle ore rubate alla scuola,
delle prime monetine ingoiate dal jukebox, delle prime sigarette fumate di nascosto,
dei primi fremiti del corpo che prende consapevolezza di sé.
Allora, quando la vedevamo passare per Via delle Rose, nei tiepidi pomeriggi
d’aprile, l’aria si arroventava e il nostro fiato si faceva corto
in maniera struggente. Prima c’era la fase dell’attesa, quando ancora
non sapevamo se quel giorno sarebbe passata. Non era regolare e ripetitiva come
un orologio. Avrebbe potuto esserci o non esserci. E se mancava per qualche
giorno alla fila, almanaccavamo: «Che sia malata? Che si sia trasferita?»
No, c’era sempre. Tornava. Aveva un passo - come dire? – liquido
e altero nel contempo. Non invitava, eravamo noi che ci autoinvitavamo ad ammirarla,
sboccati, lascivi, come solo può esserlo la ragazzaglia di quell’età;
ma sempre inter nos nelle nostre esternazioni, non lasciandoci mai sfuggire
nemmeno un fischio o una parola di troppo, protetti dalla vetrata del bar, dove
lasciavamo la traccia umida dei nostri affannati respiri e l’essenza del
nostro desiderio, mentre i suoi seni eretti parevano bucare la seta delle sue
attillate camicette e lo sguardo obliquo delle sue intense pupille, trafiggeva
i nostri turbamenti.
Era il fascino fatto donna.
Era il nostro mito.
E ieri sera ho rivisto quegli occhi.
Non so se cammina ancora come una pantera.
Un po’ d’argento, un poco appena, ha illuminato i suoi capelli.
Lo sguardo obliquo dei suoi occhi è sempre quello: trafigge ancora, perché
il fascino non ha età.
Sissignori, e così mi consolo anch’io, sperando di restare “commestibile”
nel tempo…
Grazia Giordani