I racconti di Grazia


Miss gambe

Questo è l’ultimo episodio che mi ha narrato l’’avvocatone” di cui ormai sapete molte cose, quello deluso da Patrizia e che a sua volta aveva deluso Rita (il mondo è una vera girandola di delusioni a catena!), quello che mi raccontava spicchi della sua vita erotica obtorto collo, non del tutto persuaso che ne avrei tratto qualcosa di buono.
«So bene – mi diceva – che lei continua ad essere scettica riguardo alla verità di quanto le vado raccontando, ma le giuro che questa è solo una parte della mia vita professionale ed amorosa, spesso mescolate insieme.
Intorno agli anni Sessanta, per conto della SIAE, ero in giuria del premio Miss gambe. Non c’è niente da ridere! Se fa così, non continuo il racconto. Bene. Eravamo nel pieno dell’estate. La manifestazione era tenuta all’aperto. Nell’aria navigavano profumi di fiori, disposti per abbellire i tavoli collocati nel parco, misti agli aromi forti di drink speziati, ma era soprattutto l’odore di donna che spiccava fra tutti, uno strano cocktail di sesso e miele – e non faccia quella faccia, suvvia, sembra un’educanda! – che solo voi sapete emanare. (Comunque penso che questa non sappia di nulla, è arcigna e provinciale, non so nemmeno perché io le stia regalo queste chicche…).
Presi posto fra i giurati. L’occhio di bue illuminò una ad una le candidate al premio che avevano il volto coperto da un drappo nero, quasi fossero condannate al patibolo. Indossavano vesti succinte, le gambe esposte in netta evidenza».
«Perché il volto nascosto?»
« (questa l’ ho detto io che capisce poco…) È chiaro – Signora – per non influenzare la giuria, sedotta da un bel visino, a discapito delle gambe!»
«Un rullo di tamburi elettrizzò l’aria già calda di desideri. Iniziai ad esaminate gli steli di quei bellissimi fiori-donna con la massima attenzione. Cosce lunghe sovrastavano ginocchia ben modellate, posizionate sopra polpacci alti in maniera sufficiente da permettere alla caviglia di mostrare tutta la sua snellezza. Non vi erano calze, né artifizi adatti a mascherare difetti. Eppure, io cercavo gambe che fossero anche “espressive”, non solo perfette. Adesso lei mi obietterà che solo i volti possono avere espressione, ma non è vero. Ci sono mani che parlano, che esprimono sentimenti non solo nel gestire, ma anche nella forma piatta o bombata delle unghie, nell’attaccatura al polso, nel modi di piegare le falangi; ci sono glutei che mi fanno impazzire per certa loro rotondità sinuosa, sensualissima. Ma ritorniamo alle gambe…

«Torniamo alle gambe – dicevo. Cercavo gambe che mi parlassero, che “chiamassero” che mi… E poi con lei non si può parlar chiaro come facevo con Bevilacqua - altro “degustatore”! – o con la Maraini che non è certo bigotta. Lei sta lì, appollaiata sul sedile, Signora-guardatemi-ma-non-toccatemi, e col suo fare asessuato – mi perdoni – mi toglie tutta l’ispirazione…»
«Siora – si intromette la voce dell’autista, in sordina – non la staga mia darghe retta, ‘sto qua el xe n’avocato che no me farìa defendare gnanca sa avesse robà solo do gaine…»
«E, finalmente le vidi: appartenevano alla penultima concorrente in fondo alla fila».
«Manco mae, chissà che ‘l la pianta de rompare, ciò!»
«Le assaporai piano, godendomi la rotonda perfezione dei talloni che posavano su tacchi a spillo color oro brunito di deliziosi sandaletti, percorrendo quindi tutto il dorso nervoso di quel piedini perfetti, snelli senza essere scarniti, arcuati in maniera deliziosa, e giunsi alla grazia curvilinea del polpaccio morbido e compatto; ebbi un sussulto arrivando al ginocchio, e tenni per ultima la coscia fasciata dalla seta naturale di quella candida, trasparentissima pelle, perdendomi poi nella chiusa magia di quell’inguine… E mi incaponii perché il premio fosse dato a lei. Quando le tolsero il drappo dal viso, mi persuasi che le gambe continuavano ad essere la parte migliore di quella Edelweiss (che strano nome!), una ballerinetta da quattro soldi, molto ben fatta, ma con lineamenti troppo risentiti. Qualcuno le disse che il mio voto era stato decisivo. Mi ringraziò con un sorriso esagerato, un po’ troppo servile, chiedendomi poi il mio indirizzo».
La narrazione dell’avvocato si faceva sempre più lenta, perso nei suoi nostalgici ricordi, quell’anziano signore sembrava parlare soprattutto per se stesso. Si stava raccontando una piccante vicenda con dovizia di particolari.
«L’indomani comparve allo studio, abbigliata con abiti troppo stretti, tacchi troppo alti e troppo profumo dozzinale indosso. Tutto troppo, solo le gambe erano poche, perché di gambe così vorremmo vederne in numero infinito».
«Ciò, el voea un millepiedi ‘sto vecio qua!».
«Accettò subito un invito a cena, ben consapevole e speranzosa del dopocena. Ma non volevo portarla a casa mia. Sullo stesso pianerottolo abitava ancora mia madre. Non volevo “sporcare “ lo studio, ancora pieno delle ore trascorse con Patrizia. Mi venne in mente che un mio amico scapolo e gaudente pari mio, mi aveva proposto l’uso della sua garçonnière, raccomandandosi di mettere un apposito segnale sulla porta d’ingresso, per far vedere che il locale era occupato».
«Come La Dame aux camélias quando metteva nel risvolto del colletto una camelia rossa per indicare che era giunta in “certi giorni” del mese?»
« (Allora non è sprovveduta come sembra – questa – non legge solo “Famiglia cristiana”, sembra conoscere anche Dumas). Sì, proprio così, Signora, un segnale convenuto, onde non creare incontri sgraditi ed imbarazzanti»
«E allora?»
«Approfitto del momento di sosta per scendere a fumare una sigaretta».
«Ma davero la scriverà de ‘sta storia? La pare tuta inventà…»
Le ombre della sera stavano velando il paesaggio che aveva ripreso a saettare, visto attraverso i vetri in corsa. Scampoli di giardini precedevano o seguivano case piatte, impersonali e i viaggiatori del pullman, seduti attorno a noi, attendeva il resto del racconto.
«Cenammo in fretta. Per farle colpo la portai in un locale lussuoso, pentendomi subito della scelta: teneva male le posate in mano e masticava a bocca aperta, sbrodolandosi il mento. Andammo diretti nell’appartamentino compiacente dell’amico. Misi alla porta il segnale convenuto, senza curarmi, per la fretta, se fosse stato fissato con la dovuta cura. E…»
«… ed entrarono all’improvviso – cogliendoci già mezzo spogliati – l’amico in compagnia di una ragazza minuta, di aspetto molto delicato, in netto contrasto con la mia Miss, quella Edelweiss felicemente “gambuta” di cui già molto conoscete.
Non sapevo se ridere o piangere. Franco, l’amico, invece di scusarsi, o andarsene alla chetichella, come avrei fatto io al posto suo, si sedette disinvoltamente sul letto, aumentando il mio imbarazzo. La mia compagna si sedette a sua volta, solo la piccola restò in piedi, accostata al muro, silenziosa e immobile, come se fosse in uno stato di attesa. E così, non ostante la situazione, a dir poco grottesca, ebbi modo di osservarla. Già sapete quanto io sia «curioso delle donne». Efebica, la sua figuretta sottile, sembrava nuotare dentro delle salopette di un color liquirizia, in strano accordo cromatico col suo sguardo, reso obliquo dal taglio orientale degli occhi. Nasino minimo, bocca gentile, pelle chiarissima. Nulla di procace, eppure dotata del fascino acerbo che hanno le rose di macchia ancora in boccio, quelle che vorremmo non sfiorissero mai».
«Te po’ figurarte se intanto che i jera in mutande pronti a…quelo el se mete a osservare la magreta e i so oci e la so pele e le rose sbocià e da sbociare…»
«E così le è sfumata l’occasione di “giocare” con Miss gambe?»
«Se fosse andata solo così, sarebbe niente. Ma, al solito mi interrompe, non ha pazienza, vuol correre alle conclusioni. Mira ai fatti, non è attenta alle sfumature, ai passaggi psicologici sottili, ai miei stati d’animo. Non è attenta alle descrizioni dell’ambiente. Mi ha chiesto com’era la stanza? Com’eravamo vestiti? Mi rivolge domande insignificanti…Ma riprendiamo il filo da lei inutilmente interrotto. La piccola – che si chiamava Silvia – un nome adatto a lei, odoroso di bosco intatto, di erbe selvatiche, di viole nascoste, continuava a guardare la scena, ora sorridendo piano, in maniera “leonardesca”, impercettibile. Sollecitata da Edelweiss, si avvicinò timidamente. Franco aprì un mobiletto, estrasse bicchieri e bottiglia e gridò. “Brindiamo, brindiamo all’amore, all’amicizia, alla gioia dello stare insieme!”».
«El gavèa un bel corajo par altro, dopo che ‘l jera vegnù a romparghe…»
«Bevemmo, parlammo. L’amico accese lo stereo. Edelweiss si mise a ballare in maniera sempre più sfrenata, dimenandosi come un’ossessa, denudandosi senza pudore. Sembrava una baccante. Silvia la guardava incantata, attratta da quella femminilità aggressiva, irruenta, scalmanata, trasudante eros e afrore di carne surriscaldata. La guardava come se fosse a teatro e stesse assistendo ad uno spettacolo che l’andava infiammando. Dove l’aveva pescata Franco? Seppi poi che era figlia di vicini di casa. Che strano vicinato!
«Inaspettatamente, finito quell’improvviso baccanale, le due ragazze uscirono dalla stanza, come se un cenno a noi sfuggito, le avesse legate, fatalmente, all’improvviso».
«E così lei è andato in bianco?»
«Non sia inesorabile, Signora!»

Grazia Giordani

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