I racconti di Grazia
Racconti ironici
Stessa spiaggia stesso mare
Da ventiquattro anni a questa parte, frequento la stessa spiaggia,
trascorrendo l’estate in un minuscolo monolocale, quasi un ventre materno
che mi accoglie amorevole. «È un loculo!» - sostiene mio
figlio che ama le cose in grande, tanto che se gli chiedo di uscire a comprarmi
un po’di parmigiano per la pasta, rischia di portarmene mezza forma, faccio
per dire, tanto per darvene un’ idea. Non so proprio cosa Freud avrebbe
visto dentro questa necessità, da parte dei giovani, della visione ingrandita:
case grandi, auto spaziose, portafogli pieni… Mah, proprio non saprei
e non azzardo ipotesi. Tornando a bomba, dunque, vacanze a S* in una spiaggia
del nord un po’ selvaggia, mare e campagna, tramonti di rubino e albe
di perla, pineta spettinata, sveglia al canto roco dei fagiani, a mezzanotte
gorgheggia l’usignolo, frinire di cicale ossessivo, ma che fa tanto estate
mediterranea. Pochi negozi, quelli essenziali per la sopravvivenza;
una farmacia (speriamo che ce la lascino!).
Stesso ombrellone, tanto che – da un anno all’altro -, ho quasi
la sensazione di non essermi spostata da lì. Medesimi vicini, eccetto
quelli – non molti, finora – che hanno il brutto vizio di staccare
il biglietto per il solo viaggio di andata, quello che non ha ritorno. Alcuni
vicini sono diventati amici da frequentare anche d’inverno; altri da evitare
in ogni stagione, anche in quelle che dicono non esserci più.
Le donne, sulla spiaggia, vantano mariti, amanti e figli perfetti, parlano molto
di cucina: di quello che hanno cotto, di quello che cucineranno o cucinerebbero,
gorgheggiando ricette esclusive di famiglia (la noce moscata sì, la noce
moscata no; meglio l’aglio o la cipolla?).
Anni fa, ho assistito a uno strano alterco tra una tardona che si arrogava il
titolo di esser stata - (quando Annibale valicava le Alpi?) – il meglio
culo di Forlì(sic). «Guardandoti ora - le ha risposto una scettica
vicina – non si sarebbe proprio detto!» Il diverbio è peggiorato
quando la forlivese ha rincarato la dose con un fatterello gratificante, accadutole
proprio il giorno prima. Visitata dal ginecologo, sarebbe stata gratificata
da questa lusinghiera diagnosi: «Signora, lei ha l’utero di una
donna di vent’anni!» E la sempre più scettica vicina: «Chissà
come si sentirà solo, poverino, in mezzo a tutto il resto che è
invecchiato!»
La più anziana del gruppo, credendo si parlasse ancora di ricette, e
di conserve è intervenuta dicendo: «Per conservarlo, lo bollo venti
minuti a coperchio chiuso…»
Dimenticavo…
Proprio nel corso della magica domenica “bloggante”, ospiti
della soave Colfavoredellenebbie, seduti accanto alla dolce Dolittle, a mio
marito è venuto in mente un flash che avevo dimenticato di raccontarvi
a proposito della forlivese, mia vicina d’ombrellone, che qualche post
più sotto potete ritrovare in Stessa spiaggia stesso mare, mi riferisco
all’energica signora, persuasa d’esser stata – decenni fa
– il più bel derrière della sua città, quella con
l’utero ventenne, scioccato dal convivere con tutto il resto invecchiato.
Ebbene, esaminando la sua anatomia, avevo dimenticato l’episodio della
protesi.
Una bella (per lei orribile mattina) l’abbiamo vista arrivare alla spiaggia
tutta trafelata.
«Sapeste cosa m’è successo!?»
Il vicino d’ombrellone di sinistra - sollevando il sopracciglio dall’
Unità – «Qualche altro organo resuscitato?»
E lei:«Una vera tragedia, lavandomi i denti, ho ingoiato una protesi mobile.»
Il vicino d’ombrellone di destra – lasciando cadere per terra Libero-
«Ostia!»
A pochi passi da noi, sedeva un primario ostetrico molto snob che tentava spesso
di conversare in inglese, non si è mai capito il perché.
«Non si disperi signora, finirà per evacuarla!»
La scena della desolazione si rinnovò per ben tre mattine.
Ormai era un rito.
Ci raccoglievamo a crocchio attorno a lei.
«E allora?»
E lei: «Niente, niente.»
La vedemmo arrivare raggiante, spingersi verso l’aristocratico
promotore di nascite, che alzò lo sguardo, svogliatamente, dal suo National
Geografic per sussurrargli all’orecchio quanto già sospettavamo.
«Con gratulations!» - modulò l’illustre terapeuta,
complimentandosi per la nuova “nascita”.
L’Ospedale
La paziente: «Ho una fifa tale che penso di essermi anestetizzata
da sola. Anzi, non so nemmeno bene se sono ancora viva o morta…»
Un dottore: «Sei viva, vivissima e petulante, anche… prova a contare».
La paziente: « Non sono forte in matematica!»
Secondo dottore: «Apri gli occhi, apri gli occhi, è andato tutto
bene».
La paziente: «Soprattutto se ne è andata la mia tiroide a cui ero
tanto affezionata. Non respiro!»
Terzo dottore: «Respiri benissimo, non fare storie.»
La paziente:«Mi fai pensare a quella barzelletta dell’ammalato,
coperto da un lenzuolo, in quanto giudicato morto dai dottori, che – avendo
obiettato di essere invece ancora in vita, gli è stato risposto da un
infermiere: “ Se i dise che te si morto te si morto, voto saverghene più
del dotore?»
Chirurgo, anestesista, otorinolaringoiatra, cardiologo, endocrinologo e qualcuno
che passava di lì per caso con scope e spazzoni, ad abundantiam: «Ecco,
appunto, se non respirassi potresti fare un così lungo discorso?»
La paziente, rassegnata: «Il fatto è che credo di poter parlare
anche post mortem» .
Gli infermieri (brandenti fleboclisi e siringhe): «Su ‘sta rasòn
non podaresimo proprio darghe torto. Però la ne tegnèa alegri!»
Grazia Giordani