I racconti di Grazia
DISSOLVENZA
Ci sono voci così luminose che brillano
nel buio di una stanza. Proiettano intorno a sé
ventagli irregolari di luce ora più fioca ed opalescente, ora forte come
un lampo improvviso, a seconda del volume che le caratterizza nel corso della
conversazione: alle vocali aperte, soprattutto a quelle, corrisponde un fascio
luminoso più intenso e persistente.
Ho notato questo fenomeno ottico il giorno in cui ho cominciato a sentirla al
telefono, non dico ad ascoltarla, perché l'ho proprio sentita.
Non avevo notato questo fenomeno al nostro primo fortuito incontro, che pure
aveva già del prodigioso, perché - ancora prima di conoscere la
sua persona - mi aveva colpito la sua sagoma riflessa nella vetrina del libraio
sotto casa mia. All'improvviso, tra il volume Saggi, Prose, Racconti
di Virginia Woolf e un atlante aperto sul polo Sud, si era inserito il suo volto
dai lineamenti irregolari ed allusivi, un viso interessante, pur non essendo
bello nel senso classico, secondo i canoni della bellezza tradizionale: qualche
ruga lieve contornava lo sguardo maliziosamente obliquo, le labbra rosse come
il frutto del peccato, avevano sapore di provincia; guardata di profilo, mostrava
un naso lievemente aquilino che regalava un contrastante tocco di nobiltà
al suo volto. Da un piccolo turbante nero usciva un accenno di chioma riccia
e mesciata, capelli ribelli che amavano andarsene per conto loro. Certamente,
mentre io osservavo la sconosciuta, anche lei guardava me e - seppi poi - notava
la mia chioma precocemente incanutita ("se sapessi come ti regala fascino!")
e non restava indifferente al "lampo dei prati in primavera" - così
si espresse in seguito - dei miei occhi verdi così spesso lodati dalle
donne, da rendermi ormai indifferente alla loro ammirazione.
"Anche lei ama Virginia Woolf?" - mi chiese nel più naturale
dei modi. Avevo fretta di correre in redazione al giornale e - seppure incuriosito
da quella signora niente affatto banale - non ero disposto al pour parler,
a quei discorsi che intrecciamo in treno o mentre aspettiamo il tram o durante
una rapida corsa in ascensore, tanto per dire qualcosa, speranzosi in seguito
di "rimorchiare": non abbordo mai sconosciute per la strada, né
mi lascio abbordare. Eppure la voce mi uscì dalla gola, nonostante me
stesso, lasciandomi meravigliato per primo.
"Posso offrirle un caffè?"
Non rispose nemmeno e mi prese sottobraccio, come se ci conoscessimo da sempre,
come se fossimo vecchi amici che si ritrovavano, dopo una lunga pausa d'attesa.
Eppure non aveva nulla di equivoco o di pericoloso. Sentii un'immediata attrazione
per lei, quando si tolse la pelliccia, all'interno del bar, e la gettò
sulla spalliera di una seggiola: il suo seno forte, sottolineato dalla giacchetta
blu, fermata da tre grossi bottoni, era un richiamo ancestrale, un morbido cuscino
di delizie su cui avrei desiderato abbandonare subito la testa, sognando un
po' di mamma e un po' di amante in un'unica edipica fantasia. Il caffè
era caldo e forte, la sua voce mi entrava dentro, me ne appropriavo, prendeva
spontaneamente a far parte di quell'archivio sonoro, proprietà di tutti
noi, per cui ci basta quasi uno starnuto - un fulmineo eccì -
di una persona nota, oppure un sintetico sì, per sapere subito
di chi si tratta.
Scoprimmo - quasi sovrapponendo le nostre voci, nel frenetico parlare -, di
avere un' origine isolana comune. Parlammo di Pirandello e Sciascia, di Tomasi
di Lampedusa e di Lucio Piccolo, dell''mpanata di agnello, delle panelle
palermitane, degli arancini di riso, dell'intertestualità di Garcia
Marquez. Litigammo blandamente su Proust che lei adorava e io trovavo e trovo
stucchevole; ci riconciliammo sul caciocavallo ragusano e su Milano "capitale
del capitale".
Era bibliotecaria in una piccola città del Veneto, per questo amava tanto
i libri, almeno quanto li amo io.
Ci scambiammo i numeri di telefono. La giornata passò senza intoppi.
La pagina, al giornale, mi riuscì soddisfacente per equilibrio nei contenuti
e nell'eleganza grafica. Pranzai con un'amica di vecchia data, risposi a parecchie
telefonate. Ricevetti rassicurante conferma che il mio ultimo saggio sarebbe
uscito prima di Natale: una routine senza scossoni e senza brutte sorprese.
Le ombre della sera si coagulavano liquide ed insidiose dietro i vetri della
finestra; il volto di una collega che vi si specchiava, passando, mi rimandò
un rapido flash della sconosciuta con cui tanto rapidamente ero entrato nell'orbita
delle "affinità elettive", quelle per cui una persona che ad
altri può apparire insignificante, a noi parla un linguaggio speciale
ed ineludibile, un richiamo a cui non vogliamo sottrarci.
La sera stessa la chiamai al telefono. Ero sdraiato nel divano del salotto,
in penombra e avevo voglia della sua voce "interna". Notai subito
quei fasci, ora sfatti in un'opalescenza che poteva accendersi in luci più
intense, e ne provai un godimento interiore di rara natura. Ripensai sensualmente
a quei tre bottoni sul suo petto, chiusi da un'asola che si poteva facilmente
aprire.
M'invitò nel suo cottage in montagna. La raggiunsi dopo una settimana,
e finalmente slacciai, non solo con la fantasia, quegli ostili bottoni, divenuti
docili, sotto la stretta delle mie dita. Il paesaggio da cartolina natalizia
era persino troppo oleografico per essere veramente di mio gusto: candore di
neve abbagliante, caminetto acceso con fiamma purificatrice, pranzetto al lume
di candela. Detesto la banalità, gli auguri di buoncompleanno, le frasi
fatte, il déjà dit, lo scontato comunque.
"Preferiresti la pioggia? Una casa fredda? Un'amante che ti resiste e ti
fa faticare a sedurla?"
Non le risposi. Ero comunque contento di essere lì, anche se un po' troppo
avviluppato, forse, dalle sue effusioni, purtuttavia non ero scontento del farla
così felice. Suvvia, devo ammetterlo, anch'io stavo bene con lei. Avevamo
molte cose in comune.
Da Milano le mandai un biglietto - assieme al mio ultimo libro, odoroso di stampa
fresca. "Ho sepolto il mio cuore dentro le vecchie mura" - le scrissi.
Sapevo che amava Quasimodo e che avrebbe gradito il mio messaggio, non meno
del libro che commentò in una dettagliata lettera in cui non sapeva più
se lodare maggiormente "l'eleganza della prosa vaporosa o lo spessore dei
contenuti umanissimi, per non parlare dell'originalità di orizzonti che
sapevo aprire davanti agli occhi dei lettori".
Non sapeva solo coccolarmi, sapeva a sua volta scrivere, e questo me la rendeva
più vicina.
Il giornale mi chiamava a gran voce. Sul tavolo mi attendeva una pila di articoli
da "passare" - come diciamo noi in gergo - e un saggio irto di difficoltà,
sul "caso" del "Gattopardo" da recensire. Il telefono squillava
in continuazione, la segreteria era affollata di messaggi, la schiena mi faceva
male, i grovigli della vita mi si abbarbicavano addosso.
Avevo voglia di stare un po' da solo e soprattutto di stare in pace.
Passarono i giorni. Anche le notti.
Feci un sogno terribile, peggio di un'allucinazione. Nel cuore della notte appresi
da un quotidiano che la mia ormai conosciutissima - e da me un po' trascurata
sconosciuta - era morta. Ma come? In che modo? Nel letto mi agitai febbrilmente.
Mi vidi affannosamente in viaggio per andare nella sua piccola città.
La corsa in macchina fu affannosa. C'era la nebbia. Un sudario felpato e inquietante
rendeva evanescente la realtà intorno a me. Sembrava salire dal serpente
liquido - un sinuoso canale che tagliava in due la città. Le vie erano
deserte. All'improvviso vidi un corteo scuro con una bara davanti portata a
spalle; nell'aria fluttuavano nastri d'argento, come virgole di luce: sopra
vi si distingueva appena un'illeggibile scritta.
Mi svegliai tutto sudato. Dopotutto era stato solo un sogno. Mi tornò
la voglia della sua voce luminosa, delle sue parole tenere che io non contraccambiavo
mai. Che bisogno ce n'era? Se le telefonavo, non significava che la stavo pensando?
Che bisogno c'era di leziose banalità? Oddio che lagna le donne con questo
loro bisogno di "infiorare" tutto, di "romanticizzare" anche
gli avvenimenti più naturali della vita!
Uscii fischiettando, ancora felice di avere soltanto sognato.
Nella "nostra" vetrina - intendo quella del libraio - la vidi di profilo:
sulla mezza fronte i riccioli erano scompigliati in un'arruffata frangetta che
la ringiovaniva, la mezza bocca, eccezionalmente senza rossetto, era atteggiata
a sorriso e così l'unico occhio che mi era dato vedere, sprigionava serenità.
Sollevò una mano - voltandosi di faccia - nel consueto gesto di accarezzarmi
una guancia. Mi volsi per abbracciarla, ma di spalle non avevo nessuno, o meglio
solo un gattino grigio stava attraversando la strada in una lenta, onirica dissolvenza.
* * *
Sono passati molti anni, ormai. Continuo la mia
vita di redazione: le piccole beghe con i colleghi, qualche amore occasionale,
ancora saggi pubblicati, libri altrui recensiti, viaggi tra Milano e l'isola,
spicchio di "irredimibile" terra dove chiuderò i miei giorni.
Proprio ieri, quando l'imbrunire immalinconisce le luci e dilata le ombre, nell'ora
in cui il passato cerca di uscire dal vaso dei nostri ricordi, rovinandoci magari
il cadere del giorno, proprio ieri - dicevo -, ho risentito quella voce, o meglio
la breve risata di quella mia donna conosciuta e persa nella vetrina del libraio.
Tutto è nato da un'interferenza telefonica. Avevo alzato la cornetta,
dopo uno squillo irregolare, gracchiante e strozzato, un suono anomalo che poteva
far pensare ad un errore.
"Sono stata in centro ad acquistare una cravatta originalissima per un
uomo affascinante, superspeciale in piedi e a letto, conosciuto... [e qui
un sacco di cisccisczzzcisc si sostituirono alla voce]. Se la merita proprio,
questa seta di Hermès, essendo un maschio di una razza ormai in estinzione".
Era proprio lei? Con chi stava parlando?
Provai un morso di gelosia, inusitato per la mia concezione di vita: ho sempre
vissuto per me stesso, volando in cieli liberi, avulso da legami avvinghianti,
e non ho mai preteso fedeltà dalla controparte. Che cosa mi stava succedendo?
Invecchio, ho pensato. Che sia per questo - mi sono domandato anche -, che non
"vedo" più quella voce, ma la sento, o meglio la odo soltanto?
Che sia per questo che non proietta più per me lampi luminosi, ora intensi,
ora sfocati come bagliori di luna?
Dai rumori di fondo riemerse la voce.
"Quando gliela consegnerai?"
"Stanotte. Dopo una cena al..." [ancora rumori, brusio, stridori
di fondo]
Sembrava fosse lei, la mia donna di allora, sfumata nel nulla, in conversazione
con un'amica. In effetti solo con una sua simile, con una donna, avrebbe potuto
magnificare o denigrare il sesso opposto: quelle che stavo rubando erano confidenze
del tutto femminili.
Ero sempre più curioso, avrei dato un anno di stipendio (facciamo sei
mesi, visto che non mi piace sprecare), pur di conoscere l'identità di
quell'uomo così speciale che stava oscurando la mia fama.
Alzai gli occhi e mi accorsi - vedendola ben inquadrata nello spazio aperto
della finestra di fronte -, che a posare il ricevitore, con mossa rapida nella
forcella, era una donna, che, pur notandola solo di spalle, aveva qualcosa,
anzi molto di familiare. La taglia era simile a quella della donna del passato,
scomparsa misteriosamente allora dal mio orizzonte, come fortuitamente sembrava
ora essere riapparsa. Decisi di scendere precipitosamente le scale. Uscimmo
quasi in contemporanea dai due portoni di fronte. Per mia fortuna caracollava
su tacchi alti che le rallentavano il passo, portava in testa un turbantino
simile a quello del giorno in cui ci eravamo conosciuti. La falcata era molle,
la curva dei fianchi piena, come allora. Il ricordo del suo seno dolce mi procurò
un sussulto di turbamento. Rividi la sua piccola stanza al cottage in montagna,
mi tornò addosso il profumo della sua pelle d'ambra, il sapore della
sua bocca, l'aroma dello champagne bevuto dalla stessa coppa.. Tutto in un lampo
il tempo trascorso sgorgava fuori dalla moviola in cui mi illudevo di averlo
imprigionato.
Salì rapida e leggera sopra un autobus all'angolo, un tacco ribelle le
si impigliò nel predellino. Questo piccolo contrattempo mi diede modo
di salire a mia volta, senza che lei si voltasse. Presi posto qualche fila più
indietro, vicino a una vecchia che portava un micio tigrato dentro una gabbietta:
la mia donna e il gatto camminano spesso di pari passo, pensai.
Scese dopo tre fermate, la seguii discretamente, tenendo sempre una distanza
di sicurezza. Reggeva al braccio una borsetta elegante, affiancata ad un sacchetto
colorato con una grande scritta centrale. Sarà la confezione con la famosa
cravatta per l'uomo migliore del mondo, pensai indispettito. Entrò in
un piccolo ristorante a luci complici, di quelle che attenuano le rughe in volto
alle signore e rendono sfumati i numeri del conto salato, agli occhi dei loro
accompagnatori. Un cameriere mi fece segno che non c'era posto. Gli allungai
un bigliettone, che per magia, fece subito comparire un tavolo libero per me.
Mangiai svogliato, tenendo sempre d'occhio la mia "inseguita" e il
suo "specialissimo". Bevevano ridendo, spensierati. Lui le teneva
una mano. Quando se la portò alle labbra per baciarla, non ne potei più,
fu più forte di me. Mi avvicinai concitato al loro posto e gridai forte
il nome della donna che mi aveva sostituito con un uomo che a me parve abbastanza
banale. L'uomo si alzò con espressione preoccupata. La donna alzò
gli occhi, più chiari di come li ricordavo, ora privi di quella tenue
raggiera di rughe che mi intenerivano allora, e - con voce rattristata -, mi
disse: "Sono la sorella. Spesso la gente ci confonde. Sembra che ci somigliamo
molto. Lei non c'è più; è morta nel suo cottage di montagna,
seduta davanti al caminetto, stava sorseggiando l'ultima coppa di champagne,
mentre leggeva Dissolvenza, scritto da un giornalista che le aveva prosciugato
il cuore".
Grazia Giordani