L'eco della montagna

Dolore

Riprese l’abitudine delle lunghe passeggiate nei boschi, per Helga e Carlo.
Venne la stagione delle dalie. Ne raccolsero fasci, attenti a non sciupare le piantine, rispettosi di quel lussureggiante patrimonio naturale, così come non coglievano mai funghi più di quanti ne avrebbero consumati nei loro appetitosi pranzetti.
Fatma non li accompagnava mai, si spingeva solo fino ai bordi del prato, timorosa sempre di essere vista; in presenza dell’amica non si era mai tolta la maschera. Finora, della giovane irachena Helga conosceva soltanto quel poco che le aveva raccontato l’amico.
Fu proprio in un tepido pomeriggio di settembre, uno di quelli in cui una foschia dolce vela il lago lontano, e si comincia a sentire una premonizione autunnale, che Fatma sentì il bisogno di rivelarle il suo passato, parlando a sussurri, con voce rotta, un po’ come se si rivelasse a se stessa.
«Bagdad, prima della guerra, soprattutto nella sua parte antica, era una città magica, piena d’incanto. Abitavamo in una bella casa lungo il Tigri, non lontana da quella della mia famiglia d’origine. Avevo un giardino folto di piante; il profumo dei miei gelsomini era così inebriante, che lo avverto ancora in sogno.
Avevo sposato – giovanissima - con nozze combinate come usa da noi, un amico di mio padre, un ricco commerciante. Non mi mancava nulla di materiale. E non sapevo che mi mancasse l’amore, perché questo sentimento non l’avevo mai provato.
All’alba, vedevo grandi imbarcazioni, cariche di merci, solcare il fiume e sognavo paesi lontani; pensavo a Roma, Parigi, Mosca, New York, di cui avevo letto nei libri. Le mie sorelle ed io avevamo studiato con un precettore, in casa, un vecchio parente che, il mattino, insegnava in scuole pubbliche. Eravamo state tenute lontane dal mondo. Solo nostro fratello era andato a Oxford a completare i suoi studi.
E questo mi fu fatale.
Fu la mia rovina.
La mia esistenza proseguiva lenta, senza scossoni, piatta, ma serena.
In assenza di mio marito, tornato dall’Inghilterra, mio fratello portò a casa nostra un suo amico inglese. Ci innamorammo.
Persi la testa.
Abdul ci scoprì.
Il resto lo sai già, conosci il seguito di questa storia di dolore.»
E, nel dire questo, Fatma si tolse la maschera, scoprendo un volto talmente sfigurato da impressionare persino l’autocontrollo di Helga, che non seppe trattenere un gemito, guardandola piena di inorridita compassione.
«Eppure, Carlo, che mi ha raccolta disperata, lungo la via, scacciata da tutti i miei di casa, come se fossi una cagna rognosa, ha avuto pena di me, mi ha raccolta, fatta curare e ora mi tiene con sé, con un affetto così tenero che è miele per le mie ferite.»
Helga non riuscì a trattenere le lacrime.
«E l’inglese?»
«Misteriosamente scomparso. Temo i miei l’abbiano fatto uccidere.»
Helga non riuscì a trattenere le lacrime.
I suoi dolori passati e presenti le apparvero quisquilie, piccinerie senza importanza.
In uno slancio improvviso e incontenibile, abbracciò l’amica.
La maschera tornò rapidamente su quel viso martoriato, e non fu mai più toccato l’argomento.

Grazia Giordani