I racconti di Grazia
LA LETTERA RITROVATA
Fermò l'auto al limitare del vecchio giardino,
proprio dove l'edera debordava dal muro, in arruffato groviglio. Da quanti anni
non visitava più la casa della sua giovinezza? Non aveva voglia di perdersi
in calcoli numerici, desiderava ritrovare lo spirito del tempo, quell'aria rarefatta
che nessuna narice umana saprebbe inspirare, un vapore metafisico dentro cui
alita l'essenza di una vita.
Trasse dal portabagagli un'accetta, di cui si era provvidenzialmente premunita;
sapeva che avrebbe dovuto servirsene come di un machete, per abbattere quella
jungla che sperava non troppo abitata da serpi o da piccoli roditori. Indossò,
prudentemente, degli stivali e - con passo ardimentoso e cuore tremante - affrontò
quel labirintico intrico di vegetazione. Il cancello, semidiroccato, non oppose
resistenza. Molte piante presentavano un tronco morto, alcune si erano salvate
e continuavano a vivere ostinatamente solitarie, come degli anacoreti, in mezzo
a quell'abbandono.
Sussultò al fruscio del sottobosco e scorse, con la coda dell'occhio,
una biscia scura che si affrettava a fuggire sinuosa e alquanto annoiata dall'intrusione
nel suo mondo. Altri crepitii e rumori le procurarono un'ansia breve, a mezza
via tra l'emozione e lo spavento. Finalmente la facciata della casa, ingrigita
dagli anni, in sintonia con i suoi capelli di donna che si stava lasciando invecchiare,
le apparve davanti, incisa da crepe profonde da cui sgusciarono fuori famigliole
di meravigliate lucertole.
L'accetta le servì nuovamente per abbattere un'asta di legno inchiodata
agli stipiti della porta. Fu un lavoro rapido, tanto il legno era infradiciato
dalle piogge e corroso dal tempo. Entrò, accolta da cortine di ragnatele
perlopiù occupate da grossi abitanti che la fecero rabbrividire. Dal
vetro rotto di una finestra al pianoterra (provvidenziale, in quanto fonte di
luce), vide fuggire un gatto fulvo, probabilmente un randagio che qui trovava
riparo dal freddo e dalle insidie esterne. Questa vista la rallegrò:
dove vive un micio i topi non hanno vita lunga, pensò sollevata dalla
paura di incontrare indesiderati ospiti.
La scala, che congiungeva l'ampio ingresso con i piani superiori, era così
coperta dalla polvere, da apparire monocroma; lo splendido mosaico che ne ornava
- negli anni della sua giovinezza - il centro dei gradini, formato da animali
stilizzati e misteriosi per forma e colori, era del tutto oscurato, non se ne
sospettava nemmeno l'esistenza. Arrivata nel corridoio superiore, si fece animo
e corse a spalancare le finestre. Solo alcune risposero all'impeto della sua
forte spinta. Ma questo improvviso travaso di una luce purissima, dopo tanta
penombra, la rincuorò. Era una luce senza stagioni, sembrava costruita
con artificio, proprio per renderla atemporale: non era smagliante come quella
estiva, né algida come quella invernale, né un chiarore di mezzo
come quella delle stagioni minori. Senza tempo, asettica, illuminava e basta,
svuotando la carica emotiva dai mobili e dagli oggetti su cui si posava.
Il pianoforte, coperto da un panno color ruggine, fu la prima sagoma familiare
ad apparire nitida ai suoi occhi. Lo svestì e ne provò i tasti
con mano esperta. Il suono rauco e stonato la deluse. Troppi anni di umidità
e freddo avevano guastato la meccanica di quello splendido Stenway su cui le
mani diafane, quasi incorporee della madre, sapevano posarsi con un tocco misurato
e struggente, che mai avrebbe potuto uscire dai suoi ricordi.
Aprì il cassetto del canterano settecentesco, quello lastronato di radica
di noce, dentro cui si poteva ancora leggere la data - 1970 - di costruzione.
Ne uscì un profumo di mimosa appassita e un ricordo di lavanda, una vera
essenza della memoria, forse più ricordata che reale. Era completamente
vuoto, se si eccettuava qualche frustolo informe (polvere o foglioline di piante
essiccate?). Da un bordo del raso color malva che ne rivestiva l'interno, le
parve di veder sgusciare fuori una strisciolina di carta. Sì, era proprio
il lembo di una busta ripiegata in quattro. La portò alla luce sotto
la finestra, rammaricandosi di aver scordato a casa una pila elettrica. Aguzzando
lo sguardo, riuscì a leggere : Per Adalgisa. Sia lei che la nonna
materna portavano questo nome, per ambedue diminuito in Gisa. Aprì
la busta con mano tremante. Conteneva un foglio molto sgualcito, vergato - per
quel poco che ne restava leggibile -, con scrittura sobria, senza svolazzi,
di stampo virile. Umidità (o lacrime?) l'avevano molto oltraggiato, non
si leggeva più quasi nulla: a parole mutile seguivano vuoti fatti di
ombre macchiate. Ritornava, nell'intestazione il nome Adalgisa; la firma
- che per primo elemento andò a controllare - , terminava con lettere
confuse, la cui unica chiara era una o finale. Dunque si trattava di una firma
maschile che avrebbe potuto essere Dario o Mario: questi nomi
appartenevano a persone con cui non aveva ricordi di avere intrattenuto corrispondenza
epistolare. Poche parole apparivano intatte, misteriosi punti fermi di un rebus
che - ne era certa - si sarebbe accanita a risolvere. Vergogna - si leggeva
con estrema chiarezza, e poi ancora due volte morte, la prima volta scritta
a lettere maiuscole, come se fosse stata preceduta da un punto fermo; e poi
un ore, preceduto da un breve spazio vuoto senza ombre. Che fosse cuore
o amore? Che la lettera fosse stata indirizzata alla nonna? Se le fosse
appartenuta, come avrebbe potuto dimenticarla? Nella sua mente qualcosa cominciò
a brulicare e a muoversi. Le parve di rivedere un volto scavato e confuso, due
splendidi occhi chiari ammiccanti, un sorriso appena accennato. Annaspava, come
quando si dimentica un nome e si cerca affannosamente di estrarlo a viva forza
dai meandri del cervello e quello sembra riaffiorare e scomparire come un nuotatore
che sta annegando. Bastava poco, anzi pochissimo. Ecco, c'era quasi. L'imposta
rotta della finestra sbattè con violenza, sollevando una vera cortina
di polvere, il foglio le sfuggì di mano. Come una farfalla impazzita
vorticò su se stesso e puntò dritto verso l'apertura spalancata,
senza esitazioni, senza impigliarsi contro nessun ostacolo, aereo, felice di
aver ritrovato la libertà. Si librò in un volo di sogno, verso
la luce di un tramonto complice del suo insoluto segreto.
Grazia Giordani