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Harmonia Caelestis di Péter Esterházy, Feltrinelli

DISARMONICHE ARMONIE DI UNA SAGA UNGHERESE
Quando un matematico diventa letterato, le cose si fanno subito difficili e abbastanza labirintiche per il lettore, e se l’uomo di penna è Esterházy, notoriamente ironico e anticonvenzionale all’ennesima potenza, la complessità è ancora maggiore. «Harmonia Caelestis», uscito per i tipi della Feltrinelli (già alla seconda edizione in poco tempo) nella splendida traduzione di Giorgio Pressburger e AntonioSciacovelli è dunque esemplare paradigma di tanta complessità che ci viene servita in un letterario piatto lungo quasi settecento pagine, sotto forma di un maxi-labirinto, entro cui navigano slegate le tessere di un mosaico storico - a dir poco ardito - che parte dal sedicesimo secolo, per giungere fino noi, esponendo la storia dei principi Esterházy di Ungheria, capostipiti del geniale scrittore.
Già il titolo – mutuato dalla composizione di un antenato dell’autore, un musicista per diletto – contiene una contraddizione in terminis, poiché, addentrandoci nella lettura, subito ci appare chiaro che la storia della Mitteleuropa, rivisitata e ricomposta attraverso quella della nobile famiglia, tutto è piuttosto che celestialmente armoniosa. E proprio a proposito di questa contraddizione, l’autore nel corso di un‘ intervista, ha precisato che: «Quando si usa un termine significa che ci troviamo davanti a una presenza o ad un’assenza. In tempo di guerra prevalgono i “sì” e i “no”, ogni “forse” è guardato con sospetto. Ma non credo di essere pessimista, ovvero, come dice la barzelletta di essere un ottimista più informato. I valori europei ci costringono a cercare di capire, ad interessarci. Abbiamo nella carne le ferite che provano la bontà di una simile opzione, dopo il silenzio degli scoppi tornerà anche il tempo delle muse, della parola. “Harmonia Caelestis” si riferisce a questo, al fatto che siamo qui, che esistiamo, più forti dei nostri drammi. Mi pare messaggio di profonda fiducia: perché, nonostante tutto, ritengo che esistere sia fantastico».
Nella sua acuta introduzione, Pressburger – curatore dell’opera – osserva come questo romanzo sia «una delle opere narrative più importanti della letteratura ungherese» e prosegue più oltre, affermando che. «la presente opera di Péter Esterházy, matematico e scrittore, propone una rilettura puramente romanzesca, beffarda, lirica, filosofica, tragica e ironica di un millennio di Storia del suo popolo, attraverso la storia di una sola famiglia, quella dello scrittore, una delle stirpi aristocratiche più influenti d’Europa. Tale gruppo umano non viene mai nominato: in tutto il libro sono dei figli a parlare dei rispettivi padri. Il piglio della narrazione, fatta a salti, frastagliata e composta di molti piccoli episodi, è giovanile, leggero e pensoso, di uno slancio potente che non può non contaminare anche il lettore».
E in effetti i lettore più sensibile e attento non può restare indifferente ad episodi anche toccanti che incontra nella pagina, seppur alieni da retorica, ma soprattutto non può mantenersi sordo alla seduzione di un testo affascinante proprio per la sua ardita “postmodernità”, se così possiamo definirla, nato dalle riflessioni di un uomo che ama l’assurdo, alieno da una vieta coerenza, amico di complicazioni lessicali e di giochi linguistici che avranno fatto sudare i bravissimi traduttori ed interpreti della sua parola.
Il critico Lázló Földeny, conterraneo dell’autore, ha sottolineato: «Quest’opera conclude la letteratura del ventesimo secolo. Non la si deve leggere solo come la storia della famiglia Esterházy. Tutta la vita terrena è un gigantesco labirinto a specchi. Tutto splende e scintilla come un enorme lampadario barocco».
L’idea del labirinto accompagna, in effetti, il lettore dalla prima all’ultima pagina, sconcertandolo, anche e facendolo spesso tornare sui suoi passi, poiché il flusso narrativo ha una musicalità sincopata come quella di un tango zoppo che evita il conforto di un ritmo rassicurante. Già leggendo Joyce, anche se in clima e contesto diversi, avevamo provato questa sensazione. Eppure, l’inquietudine si stempera, alleviata dall’amore alla vita, nonostante tutto e comunque, da parte di questo grande ungherese fermamente convinto del fatto che «non esista una vecchia e una nuova Europa, è solo che qui la storia influisce brutalmente sui destini delle persone e della società, più brutalmente che nel resto del mondo. Civiltà e tragedie da noi convivono, non si possono dividere Musil e Hitler. Entrambi sono prodotti di una stessa società».

Grazia Giordani

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