Recensioni e servizi culturali
L’amore in sé di Marco Santagata, Guanda
L’ amore e il dolore, l’intreccio 
  ritorna leggendo Petrarca
  Dall’esperienza letteraria di un italianista che legge e interpreta 
  i versi d’amore di Petrarca, in continui flash back con suoi lontani ricordi 
  personali, può prendere vita una trama che intriga il lettore . E questo 
  è il caso de L’amore in sé (Guanda, pp.174, euro13) il nuovo 
  romanzo di Marco Santagata. Se già avevamo apprezzato la sua penna nel 
  Maestro dei santi pallidi (Guanda, Premio Campiello 2003), per la capacità 
  di creare un incantevole affresco, testimone dello spirito di un’epoca, 
  nella nuova opera dell’autore modenese, docente di letteratura italiana 
  all’università di Pisa, troviamo conferma della sua originalità 
  nel comporre intrecci.
  Sembra che chi scrive – volente o nolente – porti sulla carta brandelli 
  del proprio vissuto, quindi entrare nei panni di un italianista non sarà 
  stato difficile per Santagata, esperto del Canzoniere e soprattutto in grado 
  di riproporci un Petrarca lontano dalla più vieta lettura accademica, 
  meno “filologico”, di conseguenza proprio per questo motivo, più 
  coinvolgente e vicino ai nostri tempi. Ed è appunto nella lettura del 
  sonetto La vita fugge e non s’arresta un’ora che si risveglia tutta 
  la capacità di far riaffiorare un dolore amoroso che credeva sopito – 
  per il professor Fabio Cantoni, protagonista del romanzo, temporaneamente trasferito 
  nell’ateneo di Ginevra – riscoprendo nei versi petrarcheschi non 
  una poesia d’amore, ma piuttosto versi sull’amore e sull’afflato 
  nostalgico che da essi può scaturire. Perché nei suoi anni più 
  vulnerabili, quando Fabio era ancora adolescente, si era innamorato con passione 
  forte e protesa verso un futuro pieno di vagheggiati ideali, dell’affascinante 
  Roberta, l’ineffabile, eterea Bubi, ricca, di una classe sociale molto 
  più elevata della sua. Un amore, quindi, impossibile in anni in cui le 
  differenze di casta avevano ancora molto peso. E che Bubi fosse irresistibile 
  l’autore sa dircelo in maniera efficace, con tutta la forza sognante del 
  rimpianto: “Nella memoria di Fabio si sarebbero accavallati l’immagine 
  di Bubi che scuote al sole i capelli grondanti, il profumo della sua guancia, 
  il biancore delle cornee nella penombra, un profilo catturato con la coda dell’occhio, 
  la voglia di stringere più forte… E canzoni, tante canzoni… 
  Una ininterrotta colonna sonora. I successi dell’estate parlavano per 
  loro”.
  La penna di Santagata è delicata nel rinverdire l’estasi di quei 
  primi baci, lo stupore dei due adolescenti che percorrono i loro primi passi 
  fuori dall’infanzia, percorsi dagli indimenticabili palpiti di un sentimento 
  tanto totalizzante. Totalizzante soprattutto per lui, per Fabio che è 
  nuovo ai misteri della vita e crede, ingenuamente, alla possibilità di 
  un futuro al fianco di una ragazza così diversa dalla sua indole per 
  nascita ed educazione. Purtroppo, il protagonista della storia, non ha gli strumenti 
  interiori – intendiamo la malizia – per presagire il drammatico 
  epilogo: lo attende una tragica sorpresa che non coglie del tutto alla sprovvista 
  il lettore più attento, quello a cui non sfuggono i sottili indizi, abilmente 
  disposti nella pagina, dalla penna dell’autore che sembra voler mettere 
  alla prova la perspicacia di chi sa leggerlo con attenzione.
  Naturalmente, non diremo una parola di più sulle ragioni dell’amara 
  delusione di Fabio, per non togliere la sorpresa a chi si appassionerà 
  a queste pagine intrise di sentimenti incrociati tra realtà e continui 
  rimandi poetici, sottesi da un ininterrotto sottofondo di canzoni, un po’ 
  come avviene nelle proiezioni cinematografiche, dove l’accompagnamento 
  musicale non tace mai. Possiamo però anticipare il godimento che deriva 
  dal prendere posto sui banchi dell’ateneo ginevrino, divenuti noi stessi 
  allievi del professor Cantoni che ci presenta un Petrarca così “denudato”, 
  toccato da malinconie, persino da impulsi suicidi, impreziosito da un lapsus 
  dell’insegnante che vede Bubi – in luogo di Laura – il simbolo 
  del desiderio.
  Il candore di una Ginevra imbiancata di neve gioca il misurato contrasto con 
  una lezione impudica, oltre la comprensione dello stesso uditorio, perché 
  capace di coniugare l’afflato evocatore della poesia con i sofferti ricordi 
  legati alla seduzione di una ragazza elusiva, tormentata da un morboso segreto.
  L’affiorare del doloroso passato finisce per avere, alla fine, una funzione 
  purificatrice perché il protagonista del romanzo prenderà consapevolezza 
  della capacità della memoria a lungo rimossa di progettare un futuro 
  più limpido e sgombro da rancori. 
Grazia Giordani