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L’idea di perderti di Giorgio Montefoschi, Rizzoli

I temi di Montefoschi
Gli estimatori di Giorgio Montefoschi – quelli che lo hanno apprezzato da Ginevra, pubblicato nel 1974, fino ad oggi, con doverosa sosta tra le pagine de La casa del padre, premio Strega nel 1994 – ritroveranno i temi congeniali all’autore nel suo nuovo romanzo L’idea di perderti (Rizzoli, pp. 410, euro 17, 50). Come a dire che ritroveranno il suo mondo dell’anima e quelle atmosfere che l’autore sa descrivere in maniera tanto seducente in una Roma che ha l’abilità di cesellare, vivisezionare, esaminandola quasi al microscopio e mettendoci addosso una nostalgia dell’Urbe a cui è difficile sottrarsi. Sarebbe infatti impagabile addentrasi nelle vie romane, nei suoi giardini, vicino alle sue fontane, avendolo per guida preziosa, capace di farcene percepire lo charme in tutta la sua interezza. Un numero grande di scrittori ha ambientato le sue storie a Roma, uno per tutti basterebbe ricordare Alberto Moravia, disposto a descriverci soprattutto una città chiusa negli interni, così come sono chiusi nell’incomunicabilità esistenziale i suoi personaggi. Le figure di Montefoschi vivono, invece, molto anche all’esterno e sanno apprezzare la magia delle luci, tanto che certe sue pagine hanno il fascino di un mobile dipinto che scandisce lo scorrere delle stagioni in tutte le sfumature. Su questo fondale ora livido, ora fulgente, si muove la borghesia romana, ritratta con una precisione puntigliosa quasi maniacale. Nulla sfugge all’occhio implacabile dello scrittore, per cui vediamo l’aspetto e l’abbigliamento dei personaggi nei minimi dettagli – informati del loro stato di salute e del loro pallore - sentiamo il timbro differenziato delle loro voci, persino l’odore dei loro corpi e delle loro creme idratanti.
Personaggi principali sono Paolo e Grazia, coniugi vicini alla sessantina, genitori di figli ormai lontani e arrivati nella vita. A far loro corona una schiera nutrita di amici, con le relative complicazioni sentimentali proprie all’ambiente. Un gruppo affiatato e solidale, pronto a sostenersi nel momento del bisogno. Paolo è un architetto affermato, un po’ annoiato dal tran tran coniugale (“tu credi che l’amore sia far l’amore…” lo rimprovera Grazia), un “peccatore innocente” – come lo ha definito Montefoschi nel corso di una intervista radiofonica. Un maldestro – aggiungeremmo noi – che se non sa essere casto, non è nemmeno capace di esser cauto – visto che nel corso di una gaudente serata, non resisterà alla tentazione di dichiararsi a Cristina, giovane e avvenente oculista. Incauto, come dicevamo, combinerà il malanno di far sentire la dichiarazione amorosa anche alla moglie che, umiliatissima, si rifugerà a Boston da un figlio. E nella città americana si sottoporrà a un grave intervento chirurgico, senza nulla rivelare al marito, nonostante le telefonate che intercorranno tra di loro in quel periodo.
Grazia, colta, raffinata lettrice di buona letteratura è una bellissima figura di donna, dotata di classe e tale capacità di perdono da farle ricostruire il rapporto con quel farfallone del marito, senza i veleni del rancore. Sia in vita che dopo la sua morte, la sentiamo fortemente presente nella pagina e nell’esistenza del vedovo che scopre, superato il capriccio nei confronti di Cristina, di averla amata sopra tutto e sopra tutti, trafitto da insanabili dolorose nostalgie. Salvifica ci appare l’amicizia per Bernardo, il pittore suo rivale in amore nei confronti di Cristina, una seduttrice abbastanza banale. Sembrerebbe assurdo che due uomini divisi dall’amore per una stessa donna, sappiano tendersi una mano, trovando salvezza l’’uno nell’altro. Montefoschi sa essere originale anche affrontando temi controcorrente, alieni dalla banalità del consueto. E sa essere coinvolgente, pur nell’insistenza dei suoi temi di sempre, intrisi di colte citazioni, distribuite con elegante leggerezza nella pagina, espressi nel dinamismo di imprescindibili dialoghi, atti a scavare nella psiche e nel cuore dei personaggi.

Grazia Giordani

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