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Sorella di Keto von Waberer, Ponte alle Grazie

AMORE-ODIO DI FAMIGLIA
È un romanzo che coinvolge anche per la sua verità autobiografica – Sorella – di Keto von Waberer (Ponte alle Grazie), ben tradotto, nella versione italiana da Riccardo Cravero, ma tra questo e l’affermazione che leggiamo in Weltwoche, citato nel retro di copertina del volume, per cui l’autrice sarebbe «la miglior scrittrice contemporanea di lingua tedesca», ci pare scorra il fiume imprudente dell’esagerazione. Del resto, dissentiamo anche da simili affermazioni nei saggi di letteratura dove ora questo ora quell’altro autore è definito «il più grande», dichiarazione sempre opinabile – a nostro avviso – in quanto soggettiva.
La Waberer ha certamente il merito di una penna prosciugata e spoglia da orpelli inutili, capace di emozionarci, introducendoci, con la sua scrittura, fatta di fulminei flashback di giorni e di episodi, nel vissuto reale di una famiglia dal difficile equilibrio.
L’autrice è la figlia minore, alleata col padre (con cui si stabilisce un rapporto ambiguo, velatamente incestuoso), mentre la madre è più solidale con la sorella dalla salute cagionevole. Questo crea disuguaglianza e squilibrio nei difficili affetti di famiglia, percorsi dal vento insidioso dell’amore-odio, sentimento meno raro di quanto si possa credere.
Contrapposto all’animo borghese e attento alla rispettabilità di madre e sorella, incontriamo lo spirito libero con forti pulsioni artistiche dell’autrice e del padre, irrequieto anche sentimentalmente, dal momento che le sue evasioni sentimentali sono frequenti e non ignorate dalla famiglia.
Come in un rapido film, vediamo proiezioni dei giochi d’infanzia delle sorelle, delle confidenze giovanili, dei primi amori, dei loro matrimoni e divisioni, della loro maternità, delle loro intime differenze, fino al diverso modo di soffrire il lutto per la perdita dei genitori.
Chi scrive questa storia sofferta ha un impegno salvifico da Superman – afferma – nei confronti dei familiari, intenta com’è sempre, a cercare di riconciliarli, appianandone le difficoltà. La sorella minore ammira la bellezza bionda e molto femminile della più grande, quella che morendo, vulnerata da una profonda depressione, getterà lei stessa in uno stato di gravissimo sconforto, lasciandola bloccata nella capacità di scrivere. E proprio perché la sorella era così avvenente nei suoi anni fulgenti, la scrittrice non sa rassegnarsi al suo decadimento graduale, alla bulimia che l’annienterà. Non sa rassegnarsi alla sua tragica agonia in ospedale «prigioniera di quel corpo che loro riempiono e svuotano attraverso un fascio di tubi, e che vorrebbe uscire, ma non ci riesce.»
L’idea che – a detta dei medici – la sorella possa sopravvivere, ormai ridotta a un «vegetale» è per lei il pensiero più doloroso e raccapricciante, anche perché ormai si sente privata di quel potere salvifico che le aveva dato opportunità di aggiustare molte situazioni spinose della sua contorta famiglia.
«E io, nel mio costume da Superman ormai vecchio e logoro, voglio liberarla, voglio strapparle via tutti quei tubi. Ancora una volta. Il suo corpo è anche il mio corpo. Sono io che non voglio starmene lì a vegetare, sono io che non voglio finire in una clinica per malati terminali, perché è lì che dovranno trasferirla presto.»
La vita simbiotica con la sorella crea quindi addirittura un transfert, infatti tutta la loro esistenza era stato un continuo rimando di ammirazione-invidia, di affetto-avversione, in un gioco sottile di attenzione e indifferenza che colora la pagina di note forti e laceranti.
La vicenda ci viene raccontata come se ci trovassimo dentro un mosaico dalle tessere scomposte, anticipando o posponendo momenti e questa tecnica narrativa regala movimento e originalità all’azione, trasportandoci ora nella maturità delle sorelle, ora nella loro infanzia, con mosse rapide, sorrette da una scrittura scarna che evita ogni sovrastruttura. Questo romanzo è il primo che Keto von Waberer è stata in grado di scrivere dopo il lungo blocco creativo, causato dalla morte della sorella. Una scrittura, dunque, la sua, di forte valenza autoterapeutica, che ha saputo farla uscire dal buio tunnel della disperazione.

Grazia Giordani

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