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    Proprio ieri – parlando al telefono 
        con la mia amica Lunaria che spesso mi fa un “ripasso” di 
        quelli che a lei sono apparsi avvenimenti “speciali” della 
        mia esistenza – ricordavamo il periodo che cercherei di rimuovere, 
        ma di cui è meglio che ne parli, così non ci pensiamo più, 
        ovvero di quando ho collaborato, con servizi di cultura, alla TV provinciale 
        di R*. E del resto, se sono storie di provincia, inutile sottolineare, 
        ci cascano proprio a fagiolo… 
        Ci trovavamo in un grosso paese per una ripresa su opere d’arte, 
        che io avrei dovuto commentare in voce. Ancora non c’erano i cellulari 
        e il cameraman era munito di un “chiamapersone” che col suo 
        drin drin lo induceva a mettersi in contatto poi con il direttore da una 
        cabina pubblica. 
        Il cameraman meriterebbe un capitolo a parte: bassotto, con un ciuffo 
        a banana (dentro cui, sospettavo, nascondesse un oggetto misterioso), 
        zelante e piuttosto incapace, mi veniva a prelevare a casa, guidando una 
        vecchia auto americana, di quelle così “cafone” da 
        sembrare persino bella, perché – quando il cattivo gusto 
        supera certe barriere – finisce col diventare interessante; ed era 
        perennemente preoccupato dal suo alito (non è che io lo annusassi, 
        ma non mi sembrava che avesse nulla di anormale). Scendeva nei pressi 
        di tabaccherie o farmacie, e acquistava degli spray allo scopo, che si 
        spruzzava in bocca, al mio rassegnato cospetto. Poco male, del resto ognuno 
        di noi ha le sue piccole e grandi manie! 
        Il peggio è che mi riprendeva male. Non dico di essere la Kidman 
        o la Stone, ma lui riusciva a farmi somigliare a Spadolini, e questo mi 
        irritava alquanto e non mi consolava nemmeno il fatto che il mio ottimista 
        marito, rientrando a casa dal lavoro, accendendo la TV, esclamasse. «Arda 
        che bèla ca te sì; a impizzo la television, a te vedo, a 
        te sento parlare, l’è tuta ‘na beezza – 
        Guarda che bella che sei; accendo il televisore, ti vedo, ti sento parlare; 
        è tutta una bellezza.» 
        Riprendendo il discorso lasciato sospeso più sopra: ci trovavamo 
        a commentare una mostra d’arte – dicevo – quando il 
        drin drin del “capo” ci inviò in un paesino lungo l’Adige 
        per riprendere il ripescaggio di un annegato. 
        «Ma io sono stata assunta unicamente per servizi culturali – 
        flautai flebilmente!» 
        «E ti fa de manco de vardare – E tu fa a meno di 
        guardare!» mi esortò una voce che usciva dall’ipertrofico 
        ciuffo. 
        E così fummo sulle rive dell’Adige, in un punto di estrema 
        suggestione, dove il fiume fa un’ ansa dolce da cui affiorano candide 
        spiaggette, isolotti sinuosi, coperti da una vegetazione intricata e misteriosa; 
        qui l’airone cinerino ama oziare e gazze e folaghe, nelle opportune 
        stagioni, scrivono disegni corvini in cielo. 
        In quel momento, dal cielo scendeva una specie di imbracatura, appesa 
        a un elicottero, pronta ad afferrare il cadavere affiorante a pelo d’acqua. 
        Stavo malissimo, mi veniva da piangere. Il “ciuffoso” riprendeva 
        da tutte le angolazioni. Quello che mi fece più impressione e rabbia 
        ad un tempo, furono i commenti degli “spettatori” dell’evento, 
        la loro indifferenza verso la morte di un essere umano, un suicida che 
        aveva messo fine ai suoi giorni, stremato dalla solitudine. 
        L’indomani diedi le dimissioni. 
        E ripresi con la mia adorata scrittura, per di più in una “terza 
        pagina”, dove tuttora resto, che era ed è il mio sogno, dove 
        nessuno mi rende somigliante a Spadolini, anche perché qui ero 
        e sono invisibile. 
      (alla prossima)  |