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    Chi abita in una grande città penso 
        faccia fatica a calarsi dentro le pieghe più profonde e oscure 
        della vita di provincia, luogo in cui non si è mai soli – 
        questo è vero – tanto che si finisce col sognare un po’di 
        privacy, di potersi fare i cavoli propri, senza “telespettatori”. 
        Quand’ero ragazza e abitavamo in Via San Giovanni, in un bellissimo 
        palazzo cinquecentesco, bisognoso di restauro, ma ricco di nobile passato 
        – tanto che Marin Snudo, celebre penna veneziana, lo aveva segnalato 
        nelle sue cronache -, ricordo l’indignazione di mia madre (l’ironica 
        Hena di cui spesso vi ho parlato), constatando che uno zelante pittore 
        locale, con incarichi nelle “Belle Arti”, aveva disegnato 
        pudichi veli sui seni nudi di figure mitiche, gioiosamente affrescate, 
        sulla parete di una delle stanze padronali. Queste esternazioni di pudore, 
        forse – e sottolineo forse – in una città evoluta sarebbe 
        stato più difficile incontrarle, anche se è storia nota 
        che un papa del passato aveva fatto indossare caste mutande alle statue, 
        da lui considerate invereconde… 
        Bene, tornando al ”Palazzo Rosini” di cui sopra, il cui balcone 
        centrale della sala da pranzo, mi dava modo di vedere la casa di fronte, 
        di una mia amica d’infanzia, non proprio una venere, per essere 
        obiettivi (che mio padre, noto viveur, usava appellare per la strada: 
        «A*, mi sembri la primavera!» E a cui io facevo notare, al 
        ritorno a casa: «Babbo, perché dici simili bugie?» 
        E lui:«Se non glielo dico io, chi vuoi che lo faccia? È stata 
        un’opera buona.») – non proprio una venere – dicevo, 
        al punto da preoccupare i familiari per un suo futuro matrimoniale. Quindi, 
        ogni volta che un inserviente, dalla vicina pasticceria, portava a casa 
        nostra un vssoio di paste, o una torta, la preoccupatissima nonna di A*, 
        chiedeva poi a mia madre: «Avete avuto una festa di fidanzamento?» 
        Sempre questa nonna, angosciata per i fidanzamenti altrui, aveva una cassetta 
        in cui teneva tutti i santini dei morti di sua conoscenza, da cinquant’anni 
        a questa parte. E quando noi ragazze le capitavamo in casa, apriva il 
        suo “forziere”, meticolosamente catalogato con nomi e date, 
        ed esclamava, traendone fuori le foto: «’Arda el poaro 
        Bepin, morto nel ’67, si ben ch’el gavèa diese ani 
        manco de mi! – Guarda il povero Beppino, morto nel ’67, 
        sebbene avesse dieci ani meno di me!» Oppure: « Chi l’avarìa 
        mai dito che la Carolina la sarìa morta cussì in pressia 
        e mi intanto a son ancora chi?- Chi avrebbe mai detto che la Carolina 
        sarebbe morta così in fretta, e intanto io sono ancora qui?» 
        Quando la nonna di A*, ormai quasi centenaria, è “passata 
        a miglior vita” – come avrebbe detto il sacrestano del celebre 
        romanzo di Tomizza - nella nostra fantasia è rimasto un irrisolto 
        dilemma: Avrà portato con sé, nell’estremo viaggio, 
        anche la sua preziosa cassetta? 
      (alla prossima)  |