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Storie di provincia 10

Proprio ieri – parlando al telefono con la mia amica Lunaria che spesso mi fa un “ripasso” di quelli che a lei sono apparsi avvenimenti “speciali” della mia esistenza – ricordavamo il periodo che cercherei di rimuovere, ma di cui è meglio che ne parli, così non ci pensiamo più, ovvero di quando ho collaborato, con servizi di cultura, alla TV provinciale di R*. E del resto, se sono storie di provincia, inutile sottolineare, ci cascano proprio a fagiolo…
Ci trovavamo in un grosso paese per una ripresa su opere d’arte, che io avrei dovuto commentare in voce. Ancora non c’erano i cellulari e il cameraman era munito di un “chiamapersone” che col suo drin drin lo induceva a mettersi in contatto poi con il direttore da una cabina pubblica.
Il cameraman meriterebbe un capitolo a parte: bassotto, con un ciuffo a banana (dentro cui, sospettavo, nascondesse un oggetto misterioso), zelante e piuttosto incapace, mi veniva a prelevare a casa, guidando una vecchia auto americana, di quelle così “cafone” da sembrare persino bella, perché – quando il cattivo gusto supera certe barriere – finisce col diventare interessante; ed era perennemente preoccupato dal suo alito (non è che io lo annusassi, ma non mi sembrava che avesse nulla di anormale). Scendeva nei pressi di tabaccherie o farmacie, e acquistava degli spray allo scopo, che si spruzzava in bocca, al mio rassegnato cospetto. Poco male, del resto ognuno di noi ha le sue piccole e grandi manie!
Il peggio è che mi riprendeva male. Non dico di essere la Kidman o la Stone, ma lui riusciva a farmi somigliare a Spadolini, e questo mi irritava alquanto e non mi consolava nemmeno il fatto che il mio ottimista marito, rientrando a casa dal lavoro, accendendo la TV, esclamasse. «Arda che bèla ca te sì; a impizzo la television, a te vedo, a te sento parlare, l’è tuta ‘na beezza – Guarda che bella che sei; accendo il televisore, ti vedo, ti sento parlare; è tutta una bellezza.»
Riprendendo il discorso lasciato sospeso più sopra: ci trovavamo a commentare una mostra d’arte – dicevo – quando il drin drin del “capo” ci inviò in un paesino lungo l’Adige per riprendere il ripescaggio di un annegato.
«Ma io sono stata assunta unicamente per servizi culturali – flautai flebilmente!»
«E ti fa de manco de vardare – E tu fa a meno di guardare!» mi esortò una voce che usciva dall’ipertrofico ciuffo.
E così fummo sulle rive dell’Adige, in un punto di estrema suggestione, dove il fiume fa un’ ansa dolce da cui affiorano candide spiaggette, isolotti sinuosi, coperti da una vegetazione intricata e misteriosa; qui l’airone cinerino ama oziare e gazze e folaghe, nelle opportune stagioni, scrivono disegni corvini in cielo.
In quel momento, dal cielo scendeva una specie di imbracatura, appesa a un elicottero, pronta ad afferrare il cadavere affiorante a pelo d’acqua.
Stavo malissimo, mi veniva da piangere. Il “ciuffoso” riprendeva da tutte le angolazioni. Quello che mi fece più impressione e rabbia ad un tempo, furono i commenti degli “spettatori” dell’evento, la loro indifferenza verso la morte di un essere umano, un suicida che aveva messo fine ai suoi giorni, stremato dalla solitudine.
L’indomani diedi le dimissioni.
E ripresi con la mia adorata scrittura, per di più in una “terza pagina”, dove tuttora resto, che era ed è il mio sogno, dove nessuno mi rende somigliante a Spadolini, anche perché qui ero e sono invisibile.

(alla prossima)