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Storie di provincia 9

Chi abita in una grande città penso faccia fatica a calarsi dentro le pieghe più profonde e oscure della vita di provincia, luogo in cui non si è mai soli – questo è vero – tanto che si finisce col sognare un po’di privacy, di potersi fare i cavoli propri, senza “telespettatori”.
Quand’ero ragazza e abitavamo in Via San Giovanni, in un bellissimo palazzo cinquecentesco, bisognoso di restauro, ma ricco di nobile passato – tanto che Marin Snudo, celebre penna veneziana, lo aveva segnalato nelle sue cronache -, ricordo l’indignazione di mia madre (l’ironica Hena di cui spesso vi ho parlato), constatando che uno zelante pittore locale, con incarichi nelle “Belle Arti”, aveva disegnato pudichi veli sui seni nudi di figure mitiche, gioiosamente affrescate, sulla parete di una delle stanze padronali. Queste esternazioni di pudore, forse – e sottolineo forse – in una città evoluta sarebbe stato più difficile incontrarle, anche se è storia nota che un papa del passato aveva fatto indossare caste mutande alle statue, da lui considerate invereconde…
Bene, tornando al ”Palazzo Rosini” di cui sopra, il cui balcone centrale della sala da pranzo, mi dava modo di vedere la casa di fronte, di una mia amica d’infanzia, non proprio una venere, per essere obiettivi (che mio padre, noto viveur, usava appellare per la strada: «A*, mi sembri la primavera!» E a cui io facevo notare, al ritorno a casa: «Babbo, perché dici simili bugie?» E lui:«Se non glielo dico io, chi vuoi che lo faccia? È stata un’opera buona.») – non proprio una venere – dicevo, al punto da preoccupare i familiari per un suo futuro matrimoniale. Quindi, ogni volta che un inserviente, dalla vicina pasticceria, portava a casa nostra un vssoio di paste, o una torta, la preoccupatissima nonna di A*, chiedeva poi a mia madre: «Avete avuto una festa di fidanzamento?»
Sempre questa nonna, angosciata per i fidanzamenti altrui, aveva una cassetta in cui teneva tutti i santini dei morti di sua conoscenza, da cinquant’anni a questa parte. E quando noi ragazze le capitavamo in casa, apriva il suo “forziere”, meticolosamente catalogato con nomi e date, ed esclamava, traendone fuori le foto: «’Arda el poaro Bepin, morto nel ’67, si ben ch’el gavèa diese ani manco de mi! – Guarda il povero Beppino, morto nel ’67, sebbene avesse dieci ani meno di me!» Oppure: « Chi l’avarìa mai dito che la Carolina la sarìa morta cussì in pressia e mi intanto a son ancora chi?- Chi avrebbe mai detto che la Carolina sarebbe morta così in fretta, e intanto io sono ancora qui?»
Quando la nonna di A*, ormai quasi centenaria, è “passata a miglior vita” – come avrebbe detto il sacrestano del celebre romanzo di Tomizza - nella nostra fantasia è rimasto un irrisolto dilemma: Avrà portato con sé, nell’estremo viaggio, anche la sua preziosa cassetta?

(alla prossima)